Effetti collaterali dello smart working: disuguaglianze sociali e gender gap

Disuguaglianze sociali e gender gap, gli effetti collaterali dello smart working
(foto Shutterstock)

Secondo lo studio Inapp, il lavoro agile rischia di premiare chi occupa le posizioni più redditizie, a discapito dei meno abbienti e delle donne

A chi fa bene lo smart working? Secondo uno studio curato dall’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) in Italia, per come è praticato, il lavoro agile tende ad avvantaggiare soprattutto i lavoratori con un reddito alto, in prevalenza uomini, accentuando così le disuguaglianze sociali. L’analisi porta la firma di Luca Bonacini, Giovanni Gallo e Sergio Scicchitano, ed è stata pubblicata sul working paper dell’Inapp n. 50

L’indagine

Lo studio parte da due indagini*, entrambe condotte dall’Inapp, che contano su un campione di 45 mila persone in età lavorativa (18-74 anni). Unendo la banca dati alle statistiche della Protezione Civile sul numero di casi rilevati, i ricercatori hanno cercato di capire se e in quali proporzioni l’attitudine al lavoro agile si associ a potenziali effetti sulla distribuzione del reddito. Gli studiosi hanno adottato una scala da 0 a 100 per misurare la propensione allo smart working, che permette di individuare le fasce più e meno portate. 

Più propense donne, laureati e lavoratori delle città metropolitane

Emerge che un’elevata attitudine a lavorare da remoto è più frequente tra le donne (nella scala sopracitata, il loro “punteggio” è pari a 52,3, a fronte di 45,3 per gli uomini), tra coloro che possiedono un titolo di studio dalla laurea in su (63,7), tra i lavoratori delle città metropolitane (60,3) o dei grandi comuni, nonché tra i residenti nelle aree più colpite dal Covid-19 (47,6). Dalla parte opposta, fra coloro che invece mostrano meno attitudine, troviamo le persone meno istruite (ovvero con istruzione primaria, 27,4), e i cittadini stranieri (22,8). La stessa “classifica” è stata stilata anche introducendo, come fattori discriminanti, il reddito annuale e il settore economico di appartenenza. E questo secondo confronto mostra come lo smart working tenda ad essere più frequente nei settori finanza e assicurazioni, informazione e comunicazione, noleggio e agenzie di viaggi, pubblica amministrazione e servizi professionali.

Incidenza sul reddito, aumento di disparità sociali e gender gap

Ma quelli che i ricercatori definiscono “effetti indesiderabili” del lavoro agile emergono con ancora più forza andando a verificare l’incidenza sul reddito. In particolare, i lavoratori con un basso livello di attitudine al lavoro agile sono più numerosi e riportano in media un reddito annuale lordo molto più basso. Al contrario, i lavoratori con alta attitudine allo smart working hanno mediamente redditi più alti, e il premio salariale dovuto al lavoro agile è proporzionale. Insomma, in una ipotetica foresta di Sherwood lo smart working è come un Robin Hood al contrario, favorirebbe i ricchi e danneggerebbe i più deboli, almeno dal punto di vista del reddito

Osservano gli studiosi: «se aumentassero le attività lavorative con alta propensione verso lo smart working si determinerebbe un aumento del salario medio lordo di circa 2600 euro annui, pari a circa il 10%». Ma il vantaggio salariale riguarderebbe prevalentemente i maschi (che solitamente hanno uno stipendio più alto), i dipendenti più giovani e più anziani, nonché quelli che vivono nelle province più colpite dal Covid-19 (ovvero quelle del nord). Resterebbero indietro soprattutto le donne e gli adulti di età 51-64. 

Fadda: servono formazione e politiche di sostegno

«Quello praticato fino ad ora in Italia» conclude il professor Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp, «non è stato un vero smart work, bensì una mera delocalizzazione delle medesime mansioni che si svolgevano in ufficio. Ma a prescindere, questo studio mette in evidenza gli “effetti collaterali’ del lavoro agile, che ha consentito a chi già aveva un reddito più alto di continuare a lavorare, mentre ha prevalentemente sospeso i lavori caratterizzati da bassa propensione allo smart working, accentuando ancora di più le disuguaglianze tra generi e lavoratori. È un tema che va posto all’attenzione dei policy maker, soprattutto se lo smart working, che ha interessato nel periodo culmine dell’epidemia una platea di 4,5 milioni di persone, continuerà ad essere una pratica molto diffusa. Servono politiche di sostegno al reddito per le fasce più deboli ma, soprattutto, politiche di diffusione delle nuove tecnologie e politiche di formazione professionale per i lavoratori più vulnerabili affinché il lavoro da remoto sia un’opportunità per tutti e non una scelta per pochi». 

*L’indagine PLUS (Participation, Labour, Unemployment, Survey) con un bacino di 45.000 individui in età lavorativa (18-74 anni) e l’Indagine Campionaria sulle Professioni (ICP) che raggruppa le 800 occupazioni italiane.

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