La figura del mobber e le conseguenze delle sue azioni
La parola mobbing deriva dal verbo inglese “to mob” ovvero “accerchiare”, “assalire”, “attaccare”.
Con questo termine si indicano tutte quelle azioni ripetute nel tempo e sul posto di lavoro, che uno o più lavoratori compiono per emarginare ed escludere uno o più colleghi.
Le azioni possono consistere in comportamenti aggressivi, verbali e non, e in violenze psicologiche.
Il mobber è la persona che attua il mobbing e le azioni psicosociali a danno di qualcuno. Il mobber può essere un collega (mobbing tra pari), un proprio superiore o capo (mobbing dall’alto), o un proprio sottoposto (mobbing dal basso).
Il mobbizzato è, invece, colui che subisce i danni delle azioni altrui.
I side-mobber o co-mobber sono coloro che non fanno nulla ma osservano e si rendono in qualche modo complici non denunciando l’accaduto.
Per poter parlare di mobbing, secondo lo psicologo Harald Ege, il mobber deve mettere in atto azioni quotidiane per almeno 3-6 mesi, il cui scopo deve essere quello di allontanare la vittima dal posto di lavoro.
Queste azioni consistono in:
Il mobber può avere molteplici interessi ad allontanare il proprio collega dal luogo di lavoro, come ad esempio facilitare il proprio avanzamento di carriera, paura di perdere il posto di lavoro, invidia e autodifesa. Il mobber escogita sempre nuovi modi per maltrattare la vittima e può dedicare dal 5% al 10% del suo tempo lavorativo per perseguire i suoi intenti (secondo uno studio di Ege del 1998).
Tra i danni più frequenti che si generano tra chi ha subito mobbing rientrano disturbi di natura prevalentemente psicologica come l’ansia, la depressione, gli attacchi di panico, tensione, fobie, crollo dell’autostima, e altri disturbi fisici.