Con la sentenza del 13 ottobre 2022, la Corte di Giustizia della Comunità Europea ha ritenuto non discriminatorio un regolamento interno di un’azienda che vieta l’esibizione di qualsiasi segno o abbigliamento religioso, se rivolta a tutte le religioni.
È la seconda pronuncia, nel giro di pochi mesi, che conferma la legittimità di divieti di questo tipo contenuti nei regolamenti aziendali.
È legittimo vietare qualsiasi simbolo, ma la decisione va motivata e dimostrata per non incorrere nel divieto di discriminazione indiretta.
Un’azienda belga apre una selezione per la ricerca di nuovi addetti. Si presenta una candidata, di religione musulmana, con indosso il tipico velo islamico.
L’azienda avverte l’aspirante candidata che, per poter essere assunta, è necessario sottoscrivere l’impegno a osservare il regolamento interno aziendale che prevede, tra l’altro, che «i dipendenti si impegnano a rispettare la politica di rigorosa neutralità vigente all’interno dell’azienda e pertanto non dovranno manifestare, in alcun modo, né verbalmente, né con un particolare abbigliamento o in altro modo, le proprie convinzioni religiose, filosofiche o politiche, di qualsiasi tipo».
La candidata ricorre al Tribunale belga, sostenendo la natura discriminatoria di un simile impegno e chiedendo che venga rimosso un simile obbligo. Il Giudice belga rimette a sua volta la questione alla Corte di Giustizia Europea affinché valuti se la normativa interna belga e quella aziendale siano conformi ai principi comunitari.
Il divieto di discriminazione nei luoghi di lavoro è uno dei pilastri della normativa del diritto del lavoro comunitario. La fonte normativa più importante è la Direttive CE 78/2000, che regola, appunto, il quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
In materia esistono due tipologie di discriminazioni, entrambe vietate:
Per capire in concreto come funzionano, proviamo ad applicare queste definizioni al nostro caso: se, ad esempio, il regolamento vietasse alle lavoratrici musulmane di indossare il velo, sarebbe una discriminazione indiretta; se invece, si vietasse genericamente alle dipendenti di indossare un velo nei locali aziendali, potrebbe trattarsi di discriminazione indiretta perché si andrebbe a colpire solamente le appartenenti a quella religione.
Lo stesso dicasi per quanto riguarda il diritto a professare o a non professare un credo religioso, tutelato dall’articolo 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e ritenuto uno dei fondamenti di una «società democratica».
Sulla base di tale normativa, il Giudice belga ha chiesto alla Corte di Giustizia di esprimersi sulla compatibilità della legge del Belgio (e il regolamento interno aziendale) con il divieto di discriminazione previsto dalla Direttiva Comunitaria.
Il Giudice poi approfondisce l’intera casistica, ad esempio come ci si dovrebbe comportare nel caso in cui un lavoratore si presenti con una lunga barba oppure se una lavoratrice decida di indossare – solo per moda e non per credo religioso – un copricapo religioso.
La Corte ha ritenuto che una simile previsione, contenuta nel regolamento aziendale, è legittima e non rappresenta una discriminazione, né diretta, né indiretta.
Secondo i Giudici di Strasburgo, una norma interna di un’impresa privata che vieti di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose, «non costituisce una discriminazione diretta «basata sulla religione o sulle convinzioni personali», qualora essa riguardi qualsiasi manifestazione di tali convinzioni, senza distinzione alcuna, e tratti in maniera identica tutti i dipendenti dell’impresa, imponendo loro, in maniera generale ed indiscriminata, segnatamente una neutralità di abbigliamento che osta al fatto di indossare tali segni».
La Corte di Giustizia è consapevole che anche una previsione all’apparenza astratta generalizzata possa indirettamente discriminare alcune categorie di lavoratori appartenenti a religioni che prescrivono di indossare determinati abiti.
I giudici operano così una precisa delimitazione a previsioni analoghe: questo divieto non è una discriminazione indiretta se è oggettivamente giustificata da una “finalità legittima e i mezzi impiegati sono appropriati e necessari».
Sotto tale profilo – precisa la Corte – «la volontà di un’azienda di porsi nei confronti della clientela in una posizione di neutralità politica e religiosa deve considerarsi una finalità legittima», ma deve in ogni caso essere oggettiva ed effettivamente reale. Altrimenti, si rischia di consentire, di fatto, una discriminazione indiretta.
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