Una dipendente viene licenziata dal suo datore di lavoro tramite un sms su Whatsapp, nota piattaforma di messaggistica istantanea.
La lavoratrice, allora, presenta ricorso al giudice per chiedere la reintegrazioneÈ una delle forme di tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo e consiste nell’obbligo, a carico del datore di lavoro, di riammettere il dipendente nella posizione che occupava prima del licenziamento. More nel posto di lavoro, lamentando l’inefficacia del licenziamento intimato con tali modalità.
La comunicazione di licenziamento via Whatsapp può ritenersi valida ed efficace o serve, in ogni caso, l’invio di una raccomandata A/R o la consegna a mani della lettera di licenziamento?
Innanzitutto è fondamentale ricordare che la legge sui licenziamenti individuali stabilisce che il datore di lavoro deve comunicare il licenziamento al lavoratore in forma scritta (art. 2, l. 604/1966), altrimenti il provvedimento è inefficace.
Non sono richieste altre particolari formalità, né sono indicate precise modalità di comunicazione: è sufficiente che la volontà del datore di lavoro sia chiara e che l’avviso scritto sia ricevuto e conosciuto dal lavoratore.
Nel caso in questione, la lavoratrice aveva stampato la chat relativa alla comunicazione di licenziamento e l’aveva presentata al giudice, dimostrando così di essere a conoscenza del provvedimento e ammettendo, tra l’altro, di sapere che il messaggio proveniva dal datore di lavoro.
Inoltre, dalla conversazione stampata emergeva chiaramente la volontà espressa dal datore di non voler più ricevere la prestazione lavorativa.
Sulla base di questi elementi, la Corte d’AppelloÈ l’organo che, nel sistema giudiziario italiano, è competente a giudicare sulle impugnazioni delle sentenze pronunciate dal Tribunale. More di Roma ha confermato la validità ed efficacia del licenziamento impugnato, ritenendo che il messaggio tramite Whatsapp fosse idoneo a soddisfare il requisito della forma scritta e che fosse stata dimostrata la ricezione e la conoscenza dello stesso da parte della lavoratrice (Sentenza del 6 maggio 2018).