La conversione in Legge del Decreto Lavoro 2023 (D.L. n. 48/2023) ha voluto confermare l’innalzamento a euro 3.000 del limite di esenzione fiscale dei fringe benefitl’insieme dei vantaggi concessi dal datore di lavoro ai propri dipendenti come forma remunerativa complementare alla retribuzione principale (per es. auto a disposizione, borse di studio, viaggi premio, ecc.) More ma con alcune differenze.
La misura ricalca le agevolazioni di fine anno 2022, ma rispetto a quelle previsioni presenta profonde differenze strutturali e si prospetta essere una misura passibile di effetti discriminatori, se non addirittura incostituzionali.
La novità di legge prevede che, limitatamente all’anno 2023, il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati ai lavoratori dipendenti non concorre a formare il reddito da lavoro dipendente entro il limite complessivo di euro 3.000, ma solo per i lavoratori con figli, compresi i figli nati fuori del matrimonio riconosciuti, i figli adottivi o affidati, che si trovano nelle condizioni previste dall’art. 12, c. 2 del TUIR (D.P.R. n. 917/1986), quindi a carico.
Rientrano anche le somme erogate o rimborsate gli stessi lavoratori dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale.
Nei confronti di coloro che non soddisfano i criteri stabiliti dalla norma – ossia la posizione genitoriale o affidataria che li esclude anche dai rimborsi delle utenze domestiche – resta ferma la previsione di legge originaria, ossia la neutralità rispetto al concorso alla determinazione del reddito da lavoro dipendente dei medesimi beni e servizi entro il limite di euro 258,23. Nella misura in pratica delle vecchie 500.000 lire, tornata di piena applicabilità dopo gli aumenti e le deroghe del periodo pandemico.
Si tratta dei beni e servizi in natura previsti dall’art. 51, comma 3, del TUIR – i fringe benefit appunto – che non sono assoggettati a tassazione (e a contribuzione) qualora il valore degli stessi abbia un valore complessivo inferiore a euro 258,23 (vecchie 500.000 lire). Se il valore di questi beni e servizi dovesse superare per anno fiscale questa soglia, sarebbe assoggettato a tassazione per l’intero importo.
A uno primo sguardo la nuova norma si mostra più come il frutto di un’operazione di mediazione tra la volontà di garantire una sorta di continuità (peraltro limitata) alla misura approvata a fine 2022 dal D.L. n. 176/2022 – strettamente legata alla crisi energetica e consistente nell’erogazione di una somma di denaro – e quella di prevedere delle agevolazioni per l’accesso ad alcuni beni e servizi in favore delle famiglie con figli.
In realtà presupposti ed effetti delle due disposizioni sono non solo profondamente diversi, ma anche potenzialmente divergenti. La prima partiva dalla necessità di fornire un sostegno economico concreto in vista dei rincari dell’energia ed era limitata a tale emergenza, poi rientrata a marzo 2023.
La seconda parte da un’esigenza sociale, essendo stata annunciata come strumento di contrasto alla crisi demografica, ma favorisce – e solo per il 2023 – coloro che i figli li hanno già e non coloro che devono ancora procreare.
Inoltre, come già avvenuto e in modo più evidente con la disposizione del Decreto Aiuti quater, anche la nuova disposizione si allontana in parte dalla natura tipica del fringe benefit in senso stretto.
Propriamente questi, detti anche benefit aziendali, rientrano nell’ambito giuridico della “retribuzione variabile” perché sono, appunto, “benefici accessori” rispetto all’obbligazione retributiva principale prevista e disciplinata dall’art. 36 Cost. e dal Codice civile.
Proprio in ragione di questa loro caratteristica rispondono a esigenze diverse rispetto alla retribuzione: non sono corrispettivo della prestazione lavorativa, ma hanno più ampie finalità di natura sociale legate – soprattutto negli ultimi anni – a obiettivi organizzativi di benessere e di welfare.
I fringe benefit da tradizionale strumento di fidelizzazione del personale, spesso legati alle strenne natalizie – soprattutto negli anni 90 – sono divenuti prima la testa di ponte per la sperimentazione delle prime forme di welfare datoriale (entro il limite degli originari euro 258,23) e negli ultimi anni lo strumento attraverso il quale l’organizzazione esprime i propri primari valori in termini di well-being.
Perché è su questi strumenti che si fondano le scelte etiche di base di tutta l’organizzazione senza differenze in relazione alla tipologia dei beneficiari. Si pensi ad esempio al buono per la spesa, previsto per tutti i collaboratori, senza distinzioni.
I fringe benefit si sono evoluti negli anni, passando da potenziale erogazione ad personam – quindi non necessariamente legati alla predisposizione di un vero e proprio piano di welfare – a strumento gestionale in grado di fornire in modo concreto i parametri per misurare il benessere dell’organizzazione. Perché espressione dell’attenzione che l’organizzazione dà ai bisogni individuali dei propri collaboratori.
Essi sono oggi in definitiva l’espressione più evidente delle forme di welfare unilaterale o datoriale, possibile in tutti i settori e a tutti i livelli – anche nelle microimprese – fondati sulla scelta volontaria del datore di lavoro di mettere a disposizione dei propri dipendenti anche limitate risorse economiche sotto forma della fruizione diretta di beni e servizi.
Quando le risorse a disposizione per beni e servizi possono essere non solo differenziate in termini economici – come nel caso di un limite fissato per alcuni a 3.000 euro e per altri a 258,23 euro – ma anche differenziate in ragione della sola condizione di essere o non essere genitori si inserisce tra i presupposti di questo importante strumento sociale un pericoloso fattore di discriminazione, che allontana la scelta datoriale da quegli obiettivi di benessere diffuso che sono oggi il presupposto principale delle politiche di welfare su cui si fondano anche i fringe benefit. Con potenziali ricadute anche sul principio di uguaglianza di matrice costituzionale.
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