Nel dibattito sul tema pensionistico c’è un fattore che non sembra essere stato esplorato a sufficienza
All’inizio di ogni anno diventano quasi d’obbligo alcune riflessioni sul tema pensionistico, anche al di fuori della pressione mediatica in termini di riforme.
Ogni anno, infatti, si assiste alla valutazione delle misure in vigore e all’interpretazione delle novità che la Legge di Bilancio introduce in materia.
Si tratta di un meccanismo già noto da alcuni anni, incentrato peraltro sulla volontà di individuare meccanismi di revisione della riforma Fornero del 2012 la quale, avendo consistentemente aumentato l’età per il pensionamento di vecchiaia (oggi previsto a 67 anni di età e 20 anni di contributi) ha posto le premesse per un ritiro dal lavoro che si configura per molti sempre più lontano.
Il tema sta diventando particolarmente delicato. Al di là delle necessità specifiche dei settori nei quali l’anticipo della pensione è collegato ad attività cosiddette “usuranti”, le misure di anticipo della pensione via via introdotte negli ultimi anni sono andate nella direzione di costruire nel tempo delle deroghe alla regola generale. Parliamo di Quota 100 (divenuta prima Quota 102 e oggi Quota 103, ovvero 62 anni di età e 41 di contributi) e della proroga – con sempre ulteriori limitazioni – di Opzione Donna.
Queste deroghe sono state portate avanti per rispondere alle pressioni generate dalla percezione di un sistema previdenziale visto dai più come estremamente penalizzante. Ma questa è solo una faccia della medaglia.
Alla base delle scelte di natura pensionistica ci sono in realtà questioni molto più ampie, che non potrebbero essere risolte semplicemente con le deroghe cui abbiamo assistito in questi anni.
Innanzitutto, c’è necessariamente un problema di natura economica, ossia di sostenibilità dell’intero sistema.
Se infatti la riforma Fornero ha avuto il pregio di garantire risparmi di spesa consistenti sul fronte delle pensioni, è anche vero che oggi è diventato necessario trovare un punto di equilibrio tra il condivisibile desiderio di ritirarsi dal lavoro poco dopo i 60 anni e un dato oggettivo e inconfutabile: la popolazione anziana è in aumento, dunque il sistema previdenziale dovrà sostenere un peso sempre più grosso.
Non c’è solo l’invecchiamento della popolazione attiva (cioè al lavoro) ma anche il progressivo incremento della speranza di vita, anche di chi è già pensionato. Allo stesso tempo, poi, questi fenomeni non sono compensati in maniera sufficiente dall’ingresso al lavoro delle nuove generazioni.
I dati da questo punto di vista sono impietosi.
L’età media della popolazione è in rialzo: 46,5 anni al 1° gennaio 2023. La speranza di vita al momento della nascita è oggi di 80,5 anni per gli uomini e di 84,8 anni per le donne (rapporto ISTAT 2023). La popolazione fino a 14 anni di età è il 12%, quella nella fascia 15-64 anni il 63,4%.
Cresce anche il numero di persone che hanno superato gli 80 anni di età (il 7,7% dei residenti) così come il numero di coloro che hanno superato i 100 anni di età (triplicato da inizio millennio).
Cosa significa? Che l’Italia è non solo un paese che invecchia ma è anche un paese in cui il rapporto giovani anziani è in saldo negativo perché non si fanno più figli. Il numero medio di figli per donna è salito di poco nell’ultimo anno, ritornando ai livelli del 2020 (1,24) ma pur sempre in progressivo netto calo (era 1,27 nel 2019).
Non si può affrontare il tema economico alla base della riforma delle pensioni senza avere in mente questi dati.
Se, infatti, il rapporto tra individui in età lavorativa – che comprende sia chi lavora sia chi potrebbe lavorare – e chi non lavora sarà presto di 1 a 1, si capisce bene il peso via via crescente che avremo in termini di spesa pensionistica.
La spesa previdenziale, nei prossimi anni, è destinata a salire in modo significativo. Secondo i dati della NaDEF (Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza) collegata all’approvazione della Legge di Bilancio, il totale della spesa pubblica age-related in rapporto al PIL è prevista in incremento di circa 1,9 punti percentuali nel periodo dal 2019 al 2040, anno in cui il complesso della spesa pubblica connessa all’invecchiamento si stima che raggiunga il picco del 28,3 per cento del PIL. L’aumento è ascrivibile in misura prevalente all’andamento della spesa pensionistica e di quella sanitaria.
Si consideri peraltro che, in questo scenario, il Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti dell’INPS gestisce il 45,8% del complesso di tutte le pensioni erogate.
Diventa pertanto fondamentale introdurre meccanismi di gestione del rapporto giovani/anziani e sistemi di maggiore flessibilità contrattuale nel ritiro dal lavoro che contribuiscano anche a garantire, con l’incremento della speranza di vita, non solo la buona tenuta dei conti ma anche la buona salute della popolazione anziana, mantenendola fin quando possibile coinvolta al lavoro – anche se in misura ridotta – e, quindi, intellettualmente impegnata in un mondo sempre più complesso.
Questo è un ulteriore aspetto del problema che non va sottovalutato. Quello del calo demografico e dell’invecchiamento della popolazione non è un problema solo italiano ma è comune a molti paesi dell’Unione Europea.
Tanto da aver ispirato più di una riflessione ricercabile nel Libro verde sull’invecchiamento demografico nel quale la Commissione Europea ha precisato come una delle possibili soluzioni per mantenere in attività la popolazione più anziana stia anche nella promozione dell’imprenditorialità degli anziani, nell’apprendimento intergenerazionale e nel trasferimento di conoscenze.
È necessario alimentare la flessibilità nell’accesso alla pensione, favorendo così anche la gradualità del ricambio generazionale.
Ricambio possibile avvalendosi ad esempio, dei diversi strumenti contrattuali a disposizione – quali ad esempio:
In definitiva, in un mondo dominato dalla tecnologia, l’apprendimento continuo che si realizza mantenendo ingaggiata la popolazione anziana – anche con forme ridotte di lavoro – può divenire strumento di salvaguardia dei livelli culturali di un paese.