Scopriamo come si sta adattando il mercato del lavoro all'intelligenza artificiale e quali sono le competenze che dobbiamo sviluppare
Negli ultimi anni abbiamo assistito a una diffusione sempre più incisiva e capillare delle tecnologie più avanzate. Una trasformazione tecnologica che, seppure in atto da tempo (Industry 4.0), ha subito con la pandemia un’accelerazione senza precedenti, a tutti i livelli e nella vita di ciascuno.
Questa accelerazione ha creato di fatto le premesse per l’ingresso, da ultimo, dei sistemi di intelligenza artificiale di tipo generativo. Questo tipo di tecnologia ha già diverse implicazioni nella vita e nel lavoro, e il suo impatto è destinato ad aumentare. Quali sono dunque le sfide che l’intelligenza artificiale determinerà sia a livello individuale che professionale?
Le tecnologie digitali sono centrali nel mondo del lavoro da molto tempo, ma la forza lavoro non è tutta aggiornata di conseguenza. Per questo motivo, il tema dell’alfabetizzazione digitale – o competenze digitali di base – e quello delle competenze specialistiche – o competenze digitali avanzate – sono urgenti e centrali da anni.
Avere un digital mindset diventa ancora più rilevante proprio in relazione alle trasformazioni dell’organizzazione del lavoro influenzate dai sistemi di intelligenza artificiale.
Da un punto di vista generale, il divario in termini di competenze digitali è già oggi rilevante. In Italia a possedere queste competenze è solo il 45,6% della popolazione in età lavorativa (16-74 anni), contro una media europea del 53,9%.
Presto queste mancanze diverranno ancora più evidenti in quanto si stima che ben presto il 90% delle attività di lavoro e professionali richiederanno competenze digitali di base.
Per quanto riguarda poi le competenze digitali avanzate, i dati evidenziano che le persone che le padroneggiano sono ancora insufficienti a colmare la domanda di lavoro.
La tecnologia di ultima generazione, l’intelligenza artificiale (e con essa la robotica), sta obbligando le aziende (grandi e piccole) a rivedere i propri modelli organizzativi, e non solo quelli produttivi e commerciali.
In realtà questo processo è già stato avviato da tempo, soprattutto nei settori della logistica, nel commercio, nel manifatturiero, ma la massiccia estensione in molti campi delle piattaforme digitali (non solo quelle deputate alle attività di consegna e food delivery) ha posto all’attenzione di una platea sempre più ampia di persone le implicazioni – tecniche, specialistiche, comportamentali, etiche – che derivano dalla tecnologia di ultima generazione.
Da uno studio svolto dalla Fondazione Studi dei Consulenti del lavoro (Capitale umano e transizione tecnologica) emerge come sia di fatto cambiato il fabbisogno di competenze.
Quelle digitali sono diventate un requisito indispensabile per il 63,4% delle assunzioni programmate dalle aziende. Anche il possesso di conoscenze informatiche e matematiche è un requisito sempre più richiesto dalle aziende (50,6% dei profili ricercati), mentre per il 37,1% delle assunzioni le aziende richiedono la capacità di utilizzo delle nuove tecnologie 4.0.
Lo studio riporta come tra le professionalità più difficili da trovare ci siano proprio quelle tecniche:
E ancora, progettisti e amministratori di sistemi, fisici e astronomi, dirigenti dei servizi informatici, analisti e progettisti software, dirigenti ricerca e sviluppo, tecnici programmatori ed esperti in applicazioni.
A queste carenze fa da contraltare l’ancora basso livello di laureati STEM presenti in Italia. A fronte di una media di quasi 30 laureati ogni 1.000 ragazzi tra i 20 e 29 anni in Francia, di 24 in Germania e di 23,4 in Spagna, in Italia il valore si attesterebbe al 18,3, quasi 4 punti inferiore rispetto alla media europea, che è di 21,9 (fonte Eurostat 2021).
Ma tecnologia non vuol dire solo competenze tecniche. Con l’avvento dell’Intelligenza artificiale e con le implicazioni etiche che stanno iniziando a prospettarsi con riferimento soprattutto all’intelligenza artificiale di tipo generativo, stanno diventando fondamentali anche le competenze di tipo umanistico: storiche, sociali, comportamentali, psicologiche, filosofiche, necessarie per garantire che l’apprendimento tecnico si accompagni, favorendoli, alla capacità di adattamento, di critica, di collaborazione, di creatività e di self-management da parte degli individui. In un processo, peraltro, di formazione continua che abbracci l’intero arco della vita, non solo la quella lavorativa.
E qui veniamo all’altra grande sfida che l’intelligenza artificiale porterà nel lavoro. L’evoluzione del lavoro a tutti i livelli e soprattutto da parte della popolazione più anziana, in alcuni casi particolarmente restia al cambiamento.
Il rapporto annuale ISTAT 2024 (punto 2.4) riporta come sia cambiata negli ultimi venti anni la composizione della forza lavoro in Italia: “il saldo occupazionale osservato nel periodo 2004-2023, pari a 1 milione 279 mila occupati in più (+5,7%) è la sintesi di un calo di oltre due milioni di occupati tra i giovani di 15-34 anni e di un milione tra i 35 e i 49 anni, più che compensato dall’aumento di 4 milioni e mezzo di occupati di oltre 50 anni”.
Dinamica che si accompagna anche al calo della curva demografica di cui soffre da tempo l’Italia. Incrociando i dati sulle competenze richieste e quelli sull’occupazione è possibile così rilevare come siano di fatto la generazione X e quella dei baby boomers quelle che stanno vivendo sulla loro pelle e in modo più sconvolgente la trasformazione digitale in atto.
Ma si tratta anche di generazioni che sono cresciute con meno tecnologia e che, va detto, hanno la possibilità di affrontare i processi di transizione in atto con un consolidato patrimonio strumenti – umanistici – utili per loro e da trasmettere alle nuove generazioni per poter gestire al meglio le conseguenze comportamentali e etiche derivanti dalla sfida tecnologica. Come?
Ad esempio, sfruttando le occasioni di scambio intergenerazionale ma anche le occasioni di relazione e di scambio con quelli che alcuni hanno iniziato a definire “Perennial”. Chi sono?
Si tratta di un termine coniato per definire le persone curiose e intraprendenti di ogni età (una sorta di commistione tra i termini Perenne e Millennial) che non si identificano con una generazione ben precisa, ma che si adattano ai cambiamenti e che si tengono al passo con la tecnologia, con mentalità sempre aperta all’innovazione e all’apprendimento continuo. Proprio per evitare le standardizzazioni preferiscono essere definiti non come una categoria ma proprio in base a questa mentalità aperta, che influisce sul loro modo di essere nella vita e nel lavoro.
Le nuove tecnologie influiscono sull’organizzazione del lavoro e sulle competenze e costringono – oppure favoriscono, dipende dai punti di vista – l’apprendimento continuo. La dottrina giuslavoristica ha messo in evidenza da tempo come la geografia del lavoro si sia fatta sempre più fluida (Ichino, 2020) proprio perché influenzata dai processi di evoluzione dei mestieri e delle attività per effetto dell’ingresso sempre più massiccio della tecnologia e dell’intelligenza artificiale nei processi produttivi e organizzativi.
Oggi anche molte delle tradizionali attività della conoscenza si trovano a fronteggiare e a utilizzare i sistemi di intelligenza artificiale di tipo generativo. Molti dei mestieri che esistevano negli anni Cinquanta del secolo scorso oggi sono già scomparsi o stanno evolvendo, altri ne sono nati e altri ancora nasceranno.
I dati ci dicono che comunque il saldo è positivo, perché negli ultimi 30 anni le nuove tecnologie hanno fatto nascere più mestieri di quanti ne abbiano fatti scomparire.
Non è tutto negativo ciò che si prospetta per il futuro. Negativo può essere solo l’approccio con il quale rischiamo di affrontare queste sfide, senza la consapevolezza delle potenzialità (in termini di crescita), delle opportunità (in termini di apprendimento e formazione continua), ma anche dei limiti (in termini di comportamenti) che le nuove tecnologie ci offrono.
Il confronto tra vecchie e nuove generazioni, la trasversalità intergenerazionale, il desiderio di innovazione e di apprendimento continuo che viene da figure come i “perennial” e da chi è comunque curioso e attento al cambiamento, potrebbero avere un valore fondamentale nella definizione delle regole – soprattutto etiche – che saranno chiamate a governare il rapporto tra intelligenza artificiale e lavoro.
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