Se ci concentriamo solo sui vantaggi o sui rischi rischiamo di perdere di vista il contesto. Che ruolo svolge oggi la tecnologia sul nostro lavoro?
Il significato che la Treccani fornisce di “benessere” è “stato felice di salute, di forze fisiche e morali” e secondo il Thesaurus “uno stato di buona salute che caratterizza in senso positivo la vita di un individuo”.
Pertanto, quando si parla di benessere lavorativo il primo elemento a venire in considerazione è quello della salute (fisica e mentale).
E ora prendiamo l’art. 4 della Costituzione, il quale prevede in primo luogo il “diritto al lavoro” ma stabilisce anche che “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Se il lavoro è un “dovere” – e va svolto con “diligenza”, sia quello subordinato che quello autonomo – spesso accade che, seppure sia svolto “in sicurezza” assicurando benessere fisico, non sia però svolto in un contesto che favorisce il “benessere mentale”.
Se guardiamo agli ultimi dati sullo stato di benessere all’interno delle organizzazioni (Gallup, State of global workplace 2024) scopriamo che l’85% della forza lavoro – a livello globale, seppure nel quadro del campione analizzato – è scarsamente coinvolto rispetto agli obiettivi del datore di lavoro, e in molti casi vede anche compromesso quotidianamente il proprio benessere in termini di stress.
Inoltre, negli ultimi anni si è registrata un’inversione delle modalità con cui le diverse generazioni percepiscono il futuro. Un decennio fa i lavoratori più giovani avevano una percezione della vita e del futuro più favorevole rispetto ai lavoratori più anziani. Oggi questa percezione si è invertita e il sentimento sfavorevole è più marcato sui giovani, anche se probabilmente non c’entrano le differenze generazionali (Gallup World Happiness Report 2024). Cosa può avere determinato questa inversione di prospettiva?
L’accelerazione dei processi tecnologici ha sicuramente avuto un ruolo determinante in questo processo. Ci sono moltissimi studi scientifici che trattano dell’influenza negativa che può avere l’eccesso di tecnologia sul nostro stato psicologico, ma qui non vogliamo addentrarci nei tecnicismi.
Sicuramente gli standard di sicurezza sono migliorati significativamente grazie alla tecnologia, portando a un conseguente miglioramento del benessere fisico. Dall’altro lato, però, la spinta tecnologica e la pervasività del suo utilizzo hanno portato a una crescita della volontà di cercare qualcosa che vada oltre il lavoro, cioè il benessere mentale.
Questo processo da un lato ha favorito la nascita di nuove professioni e di nuovi ambiti di attività prima sconosciuti, che hanno di fatto “liberato” molte attività non solo dai vincoli di presenza fisica, ma anche dalla necessità di dover “dipendere” da altri.
Dall’altro ha contribuito a polarizzare la forza lavoro: da una parte coloro che hanno poca possibilità di scelta e devono necessariamente “dipendere” da altri per trovare le proprie fonti di sostentamento, dall’altro una vasta e variegata platea di individui che se non scelgono il lavoro autonomo, sono però disposti a cambiare continuamente pur di trovare l’organizzazione giusta che sia in grado di valorizzare al meglio le loro capacità (e il desiderio di affermazione individuale) e le loro aspirazioni (al benessere sia fisico che mentale).
Il racconto sulle opportunità e sui vantaggi della tecnologia (indubbiamente da non sottovalutare) non può oggi andare disgiunto da una riflessione filosofica (prima che giuridica) sul sistema dei valori individuali, sul senso di “dovere” e sulla possibilità di “scegliere” (come dice anche l’art. 4 Cost.) dove, come e con chi lavorare. Una riflessione che tocca anche il grado di “diligenza” con cui il lavoro viene svolto (che sia subordinato oppure autonomo) e come questo elemento influisca direttamente e indirettamente sul benessere individuale.
Se, infatti, il lavoro è percepito solo come dovere – spesso finalizzato nel peggiore dei casi a conseguire solo i mezzi di sussistenza e, nel migliore dei casi, a massimizzare il guadagno oppure a raggiungere specifici obiettivi individuali e di carriera – e se la “diligenza” con cui viene svolto è solo imposta dall’esterno, se ne perde l’obiettivo principale, che dovrebbe essere, invece, la realizzazione di sé, ma finalizzata alla ricerca di una propria collocazione nel contesto sociale concorrendo – usando sempre le parole dell’articolo 4 della Costituzione – “al progresso materiale o spirituale della società”.
Come si possono coniugare diligenza e dovere con benessere fisico e mentale? Obiettivi dell’impresa e attenzione a quello che una volta veniva definito “il capitale umano”?
La risposta è proprio nel modello di impresa che sta nascendo dalla rivoluzione tecnologica in atto. Trovare il punto di equilibrio tra obiettivi aziendali e benessere individuale: è questo l’obiettivo principale della nuova organizzazione d’impresa.
Poiché l’impresa per sua stessa definizione si fonda sul profitto possiamo e dobbiamo immaginare per il futuro uno scenario migliore rispetto a quello che si è prospettato con la prima rivoluzione industriale.
Se allora l’accelerazione dei processi produttivi e la concentrazione sulla parcellizzazione delle attività ha prodotto in nome della crescita economica le storture che Chaplin ha emblematicamente fissato nella mente di tutti con il film “Tempi moderni”, oggi le potenzialità di crescita della nuova impresa, alimentata da sistemi di Intelligenza Artificiale, rischiano di riportarci a quelle stesse storture se l’obiettivo è la sola rincorsa alla produttività (e al profitto), senza riflettere sulle implicazioni – soprattutto etiche – di questa rivoluzione.
Gli scenari che abbiamo davanti – peraltro con un orizzonte temporale molto ravvicinato – impongono una riflessione sul ruolo che le organizzazioni vorranno ricavare per loro in un mondo che sta diventando sempre più complesso, per gli individui e per le organizzazioni stesse. In questo contesto un ruolo rilevante è proprio quello giocato da quelle organizzazioni che ieri potevano essere qualificate semplicemente come illuminate e lungimiranti e che oggi sono concretamente indirizzate verso gli obiettivi (e la certificazione) ESG (Environmental, Social, Governance).
Organizzazioni attente a tutte le tre componenti, ma per le quali l’attenzione all’elemento Social di questo processo potrebbe essere la chiave di volta per favorire la crescita di un ambiente di lavoro del tutto nuovo in grado di alimentare con pari rilevanza e con le fondamentali doti di empatia che sono oggi richieste ai manager (e non solo) dovere, diligenza e senso di appartenenza, benessere fisico e benessere mentale.
Le sfide etiche, giuridiche, ma soprattutto comportamentali imposte dalla crescita e dal perfezionamento dei sistemi di Intelligenza Artificiale non possono essere affrontate senza la consapevolezza dell’importanza di un cambio di prospettiva – anche da parte degli attori delle relazioni industriali – non solo sull’importanza e il ruolo che il lavoro ha nella vita di ciascuno ma soprattutto su quel fondamentale rispetto dell’autonomia umana (che le nuove generazioni rivendicano più delle altre) che è diventato anche principio etico fondamentale nel nuovo AI Act (Regolamento (UE) 2024/1689 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 giugno 2024, pubblicato in GUUE il 12 luglio 2024).
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