Dal 2018 Uber ha estromesso dall’app più di 1.000 driver tramite un processo automatizzato, ora è in corso una battaglia legale. Qual è il confine tra legalità e limiti della tecnologia?
Lo scorso ottobre Uber è tornato di nuovo al centro della scena rispetto alle rivendicazioni legali avviate da alcuni suoi collaboratori, che hanno impugnato il licenziamento roboticoLicenziamento che avviene attraverso un algoritmo e senza alcun intervento umano. More.
Nell’era dell’innovazione tecnologica stanno emergendo i primi limiti legali all’automatizzazione di determinati processi in cui di solito interviene l’uomo: i più complessi sembrano essere quelli decisionali che riguardano le persone.
Dal 2018 più di 1.000 driver britannici di Uber sono stati licenziati tramite un algoritmo – cioè attraverso un processo automatico che non prevede una valutazione dell’uomo – per frode nei confronti della società. Di punto in bianco i driver si sono trovati, di fatto, estromessi dall’app senza potersi giustificare.
L’associazione App Drivers & Couriers Union ha promosso una battaglia legale per difendere i driver licenziati da Uber in modo automatico. Molti di questi infatti sono stati ingiustamente accusati di attività fraudolenta – durante la prestazione lavorativa –, che avrebbe giustificato il licenziamento, senza potersi difendere.
Con l’impugnazione del licenziamentoLicenziamento che avviene attraverso un algoritmo e senza alcun intervento umano. More, i driver, oltre a recriminare di essere stati ingiustamente licenziati per attività fraudolente a loro non attribuibili, hanno rivendicato il diritto a vedersi valutati non da un robot ma da una persona.
Uber ha invece affermato di aver analizzato ogni singolo caso prima dell’estromissione dall’app, e quindi del licenziamento.
L’art. 22 del Regolamento Europeo 2016/679 (GDPRIl Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati è un atto dell’Unione Europea che si occupa del trattamento e della circolazione dei dati personali, applicabile a partire dal 25 maggio 2018 More) sancisce che «l’interessato ha il diritto di non essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato, compresa la profilazione, che produca effetti giuridici che lo riguardano o che incida in modo analogo significativamente sulla sua persona».
L’articolo prosegue con un secondo paragrafo, in cui si ammettono delle eccezioni: «Quando la decisione sia necessaria per la conclusione o l’esecuzione di un contratto, o sia autorizzata dal diritto dell’Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento, che precisa altresì misure adeguate a tutela dei diritti, delle libertà e dei legittimi interessi dell’interessato, o si basi sul consenso esplicito dell’interessato, è ammesso il trattamento automatizzato».
Ebbene, escluso il caso in cui sia autorizzata dal diritto dell’Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento, lo stesso titolare (nel caso in questione Uber) è comunque tenuto, per esplicita previsione dello stesso articolo, a tutelare “i diritti, le libertà e i legittimi interessi dell’interessato almeno al fine di ottenere l’intervento umano da parte del titolare del trattamento, di esprimere la propria opinione e di contestare la decisione”.
La decisione nel merito della vicenda non è ancora stata presa ma, quello che è chiaro, è che i driver di Uber rimangono titolari di non pochi diritti dal momento che determinate decisioni automatiche hanno prodotto significativi effetti giuridici sulle persone, come il loro licenziamento.
La futura decisione, rispetto all’intrapresa vertenza da parte dei driver britannici, potrà costituire un potenziale precedente per la Corte di Giustizia Europea.