Il calo demografico è ormai un problema strutturale. È arrivato il momento di invertire la rotta, avvalendosi anche degli strumenti di welfare
Gli ultimi dati ISTAT pubblicati nel mese di marzo – La dinamica demografica anno 2021 – mettono in evidenza il calo demografico in cui versa l’Italia: al 31 dicembre la popolazione residente è inferiore di circa 253 mila unità rispetto all’inizio dell’anno; nei due anni di pandemia il calo della popolazione è stato di quasi 616 mila unità.
Gli esperti sono in allarme da tempo, ossia da quando hanno iniziato a registrare un’effettiva riduzione della popolazione per effetto dell’incremento del saldo negativo tra numero dei decessi (ben prima della pandemia) e nuove nascite. Ma non tutto è perduto.
In questa classifica l’Italia è in buona compagnia: sono numerosi infatti i paesi europei che condividono lo stesso problema. L’invecchiamento demografico è già da tempo nell’agenda della Commissione Europea (cfr. il Libro verde sull’invecchiamento demografico), ma paesi come l’Italia scontano sul fronte del calo delle nascite motivazioni culturali e anche occupazionali.
Il primo fattore a influire sulla bassa natalità è sicuramente l’incertezza per il futuro che pesa sul lavoro dei giovani. Questi, infatti, faticano a fare ingresso nel mondo del lavoro: in Italia, il 25% della fascia 15-34 anni non studia e non lavora (fonte Eurostat) e allontana sempre di più il momento dell’indipendenza e di costruirsi una famiglia.
La ricerca di una certa stabilità lavorativa ed economica sono i primi fattori cui si tende per poter affrontare un passaggio individuale e sociale così importante come mettere al mondo dei figli.
Il ritardo nella costruzione della famiglia fa sì che le donne spostino sempre più in là il momento della maternità, oltre i 30 anni, perché spesso si tende ad affrontare la genitorialità solo quando si ha la sicurezza di un doppio reddito.
Doppio reddito che, al momento della nascita dei figli, fa pesare sempre la bilancia dell’impegno di cura quasi esclusivamente sulla popolazione femminile. Per quale motivo? Per ragioni culturali, ma non solo.
Influisce su questo, da un lato, il meccanismo di calcolo del trattamento economico per maternità e congedi parentali, che pesa di meno nell’economia familiare se agganciato allo stipendio più basso, di solito quello della donna.
Dall’altro, il ricorso al lavoro part-time quasi sempre imposto, non reversibile e, ancora una volta, agganciato esclusivamente alla popolazione femminile (dati Inapp – Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche – rapporto “Una ripresa a tempo parziale).
Perché in paesi come la Francia e la Scandinavia si fanno più figli? Perché, in primo luogo, esistono servizi per la famiglia e per l’infanzia e strumenti di gestione del rapporto di lavoro dei genitori (uomini e donne) che si traducono in veri e propri strumenti di incentivazione per l’incremento delle nascite.
La Francia, ad esempio, oltre a prevedere sostegni economici per i figli, sostiene il ricorso al part-time. Anche in Italia molti contratti collettivi lo prevedono, ma a discrezione del datore di lavoro e sempre che le mansioni del richiedente siano fungibili, con grandi difficoltà nell’effettivo ritorno al tempo pieno, una volta concesso.
In Francia, invece, risulta che il datore di lavoro sia obbligato ad assecondare la richiesta e, cosa ben più rilevante, il trattamento economico viene in parte integrato dallo Stato. Il che lo trasforma in un vero e proprio strumento di conciliazione vita-lavoro perché effettivamente volontario e temporalmente circoscritto (dati Eurostat).
Nei paesi scandinavi, oltre agli assegni per i figli e ai congedi di maternità e paternità che incentivano i padri a prendersi cura dei figli nei primi anni di vita, vi è un’ampia offerta di servizi per la prima infanzia e un sostegno ai genitori giovani, con la possibilità, ad esempio, dell’accesso agli asili nido anche se si sta ancora studiando o si è disoccupati.
In Italia, il superamento di alcuni scogli culturali ha portato a un significativo incremento del numero dei giorni dedicati al congedo di paternitàÈ il diritto del padre lavoratore di astenersi dal lavoro per tutta o una parte della durata del congedo di maternità, ed è riconosciuto in casi specifici. More obbligatorio. Un ulteriore segnale positivo è il recente recepimento della Direttiva europea 2019/1158 sulla conciliazione vita-lavoro, che coinvolge sia il lavoro subordinato sia il lavoro autonomo.
Tuttavia, il sistema delle tutele normative ed economiche per la maternità e la paternità non è da solo sufficiente, in assenza di un sistema di servizi per l’infanzia e per la famiglia supportati anche dallo Stato.
Il saldo negativo tra decessi e nuovi nati porta al progressivo invecchiamento della popolazione e influisce consistentemente sulla sostenibilità dello Stato sociale.
Sempre l’ISTAT, con le previsioni demografiche di fine anno 2021, ha rilevato che in Italia la popolazione di 65 anni è il 23,2% del totale. Quella fino a 14 anni di età è il 13%, quella nella fascia 15-64 anni il 63,8%, mentre l’età media della popolazione si è avvicinata al traguardo dei 46 anni.
Ciò significa che, in prospettiva, la bassa natalità, l’aumento della popolazione anziana e il calo demografico porteranno ad accrescere le necessità di cura, prevalentemente a carico della fiscalità generale, per effetto della diminuzione del numero dei contribuenti (l’Istat stima da 59,6 milioni al 1° gennaio 2020 a 58 milioni nel 2030, con un tasso di variazione medio annuo pari al -2,9%).
Uno dei mezzi per iniziare ad invertire questa tendenza è dato dall’incremento delle politiche di welfare sia pubbliche sia private, concentrate sugli strumenti più idonei a favorire il recupero della curva della natalità.
– Sostegni economici per i figli: il nuovo assegno unico universale è uno strumento, ma non può restare l’unico.
– Incremento dei servizi di cura per la prima infanzia. Molte sono le esperienze virtuose che si sono sviluppate in questi anni, grazie all’iniziativa privata e al partenariato tra soggetti pubblici e privati a livello territoriale. Si tratta di un modello che va replicato ed esteso il più possibile.
– Migliore utilizzo del part-time volontario e utilizzo degli strumenti normativi e contrattuali di conciliazione, di gestione dei congedi, e dei permessi e di organizzazione del tempo di lavoro, come la contrattazione collettiva di secondo livello in materia di welfare ha già messo in evidenza in questi anni, con molte rilevanti e coraggiose sperimentazioni.
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