Il concetto di valore si esprime con complessità crescente coinvolgendo anche il codice etico, nella prospettiva più specifica dei diritti umani e dell’impatto ambientale
Il 5 luglio 2024 è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea la Direttiva UE 2024/1760 del 13 giugno 2024 relativa al dovere di diligenzaÈ uno degli obblighi del lavoratore, che deve eseguire la prestazione rispettando le modalità tecniche e pratiche di svolgimento richieste dalla natura del lavoro svolto, oltre che dall’interesse dell’impresa. More delle imprese ai fini della sostenibilità, che modifica la direttiva (UE) 2019/1937 e il regolamento (UE) 2023/2859.
Si tratta della Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD), una direttiva che vuole assicurare l’implementazione delle procedure di due diligence indirizzate a dare conto – in termini di responsabilità – dei processi di analisi, gestione e governance di alcuni obiettivi specifici riconducibili a quei principi ESG che guidano la rendicontazione non finanziaria di sostenibilità.
Con la Direttiva UE 2022/2464 del 14 dicembre 2022 (CSRD, attuata con il D.Lgs. n. 125/2024) si è definito il quadro di riferimento normativo per la rendicontazione societaria di sostenibilità, trasformando in obiettivi trasversali e non finanziari i criteri che sostengono normalmente le attività di rendicontazione finanziaria.
Sono stati così definiti standard e principi di rendicontazione uniformi (ESRS – European Sustainability Reporting Standards) che coinvolgono i tre ambiti oggetto di indagine e di reportistica: ambiente (Environmental), persone (Social), comportamenti (Governance).
La più recente Direttiva UE 2024/1760 del 13 giugno 2024 (CSDDD) si pone l’obiettivo di coinvolgere in questa operazione gli ambiti più specifici dei diritti umani e dell’ambiente, introducendo obblighi di adeguamento dei codici etici.
Fino a oggi l’adozione di modelli di business responsabili negli ambiti considerati dalla Direttiva, è stata guidata prevalentemente da norme internazionali di adozione volontaria, quali ad esempio UN Guiding Principles on Business and Human Rights del 2011 delle Nazioni Unite, le Linee Guida OCSE settoriali in materia di diritti umani e le raccomandazioni OIL.
La scelta di adottare a livello europeo uno strumento normativo specifico incentrato sul “dovere di diligenza” (due diligence) mette in luce la crescente rilevanza di un approccio che, con l’obiettivo di “tutelare i diritti umani e l’ambiente (…) alla luce delle crescenti preoccupazioni espresse dai consumatori e dagli investitori in merito a tali questioni” (considerando n. 4), mira, tuttavia a “evitare la duplicazione degli obblighi di comunicazione”.
In questo modo provvede “a non introdurre nuovi obblighi di rendicontazione oltre a quelli previsti dalla direttiva 2013/34/UE per le società che ricadono nell’ambito d’applicazione della direttiva 2013/34/UE e oltre ai principi di rendicontazione che dovrebbero essere elaborati nell’ambito della stessa” (considerando n. 62) ma integrandone le finalità.
La Direttiva si applica:
La Direttiva si applica anche alle società che sono costituite in conformità della normativa di un paese terzo e abbiano generato un fatturato netto nell’Unione superiore a 450.000.000 euro.
Anche in questo caso se la società capo di un gruppo ha raggiunto il medesimo fatturato e anche nel caso di contratti di franchising e licenza entro i limiti di fatturato già indicati, ma nell’ambito dell’Unione (art. 2 della Direttiva).
Considerata l’importanza che per la Direttiva (e per tutta la normativa comunitaria in argomento) riveste la catena del valore, essa specifica poi che, sebbene le PMI non ricadano nell’ambito d’applicazione della direttiva, potrebbero essere interessate dalle sue disposizioni in qualità di appaltatori o subappaltatori delle società che invece vi ricadono. Il che ci porta ad una ulteriore considerazione.
L’obiettivo dichiarato – seppure senza che ciò possa comportare una duplicazione di oneri – è l’integrazione del dovere di diligenza in materia di diritti umani e di ambiente nelle politiche aziendali e nei sistemi di gestione, con il medesimo approccio incentrato sul rischio che caratterizza le origini stesse del modello 231.
Si tratta del medesimo quadro di riferimento che ritroviamo nel Libro verde della Commissione UE del 18 luglio 2001 (COM – 2001/366), laddove veniva allora sottolineato che “un numero sempre maggiore di imprese riconosce in modo sempre più chiaro la propria responsabilità e la considera come una delle componenti della propria identità. Tale responsabilità si esprime nei confronti dei dipendenti e, più in generale, di tutte le parti interessate all’attività dell’impresa ma che possono a loro volta influire sulla sua riuscita”.
Quindi secondo un approccio multi-stakeholder: personale, clienti, fornitori, comunità e territorio, nonché tutta la catena del valore coinvolta dalle attività dell’impresa, secondo quei principi di responsabilità economica che si fa responsabilità sociale, che da oltre venti anni guida l’adozione dei modelli 231.
Si tratta di una Direttiva appena pubblicata che richiederà attuazione specifica all’interno del nostro ordinamento giuridico (il termine è fissato al 26 luglio 2026).
Tuttavia, considerata la complessità della materia e il quadro regolatorio previsto per l’adeguamento dei modelli 231, in vista del suo recepimento agli Stati membri è riservato il compito di fornire informazioni dettagliate in merito agli impegni ed agli obblighi della CSDDD e a come dovrà essere declinato il dovere di diligenza.
Saranno di aiuto in questa materia le Linee Guida che verranno sviluppate dalla Commissione Europea avvalendosi anche dell’apporto delle varie associazioni coinvolte a livello nazionale e a livello internazionale. Sarà a tal fine istituito dalla Commissione anche un apposito Helpdesk dedicato (art. 21).
Va comunque ricordato che in vista della definitiva implementazione di queste nuove regole, potrà essere utile anche l’uso degli Standard, anche globali, adottabili su base volontaria e i sistemi di Certificazione già oggi vigenti, molto utili peraltro per le PMI al fine di trovarsi pronte nella gestione della loro parte di “compliance” rilevante – ancorché non obbligatoria – in ragione della loro delicata posizione nella catena del valore.
Tra queste certificazioni vi è sicuramente la ISO 9001:2015 che, pur essendo incentrata sulla qualità, integra un approccio basato sul rischio e sulle opportunità legate alla catena del valore caratterizzato dalla selezione e monitoraggio dei fornitori.
Si tratta di uno strumento che molte aziende, anche di piccola e media dimensione, adottano già da tempo, la cui metodologia può essere un utile parametro di riferimento per affrontare –in vista dell’attuazione della Direttiva – la più complessa attività di aggiornamento dei codici di condotta.
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