A distanza di un anno dalle prime riflessioni sulle opportunità della certificazione della parità di genere siamo ancora lontani dalla meta
Diversità, equità, inclusione sono parole che hanno un preciso significato. Di esse, forse è proprio l’equità quella che ha bisogno di un particolare sforzo di analisi e di comprensione a tutti i livelli.
Perché se è pur vero che tutti e tre questi fattori costituiscono oggi i parametri sui quali puntare per assicurare una maggiore partecipazione al lavoro della popolazione femminile, è proprio il concetto di equità quello sul quale è necessario effettuare un maggiore sforzo di analisi, per comprenderne le dinamiche e per individuare le soluzioni che possano contribuire a realizzare concretamente questo obiettivo.
Partiamo dal suo significato.
Nella percezione generale sulle dinamiche del mondo del lavoro, non è sempre chiaro il vero significato del concetto di Equità.
Propriamente, nell’ambito del lavoro, se con il concetto di uguaglianza (equality) si intende il dare a tutti esattamente le stesse risorse, il concetto di equità (equity) implica invece il dover prevedere una distribuzione delle opportunità (e delle risorse) tenendo conto delle differenti esigenze dei destinatari.
In altri termini, uguaglianza significa offrire ad esempio lo stesso compenso a parità di posizione e risultati, mentre l’equità – che nei sistemi di common law è “la giustizia del caso singolo” – consente a ciascuno – a parità di mezzi, condizioni e contesto di riferimento – di raggiungere il medesimo obiettivo (ad esempio in termini di posizione, di leadership, di livello retributivo) pur in presenza esigenze e caratteristiche individuali differenti.
Quindi, propriamente e in senso lato, il concetto di equità prescinde dal concetto di genere ma, proprio in forza dei criteri in base ai quali l’equità viene oggi misurata nelle organizzazioni, il suo significato più vero finisce per essere profondamente influenzato da questioni di genere. Questioni che, soprattutto in Italia, hanno una forte matrice culturale.
Gli ultimi dati sul livello dell’Italia in termini di Gender Gap e leadership femminile ci dicono non solo che siamo ancora molto lontani dalla meta, ma che gli anni appena trascorsi hanno addirittura aumentato in molti casi il divario di genere.
Se solo un anno fa ci si interrogava sugli strumenti a disposizione per agire sulla diversità di genere, valutando le opportunità offerte dal nuovo meccanismo della certificazione della parità di genere, oggi siamo sempre più consapevoli del fatto che la certificazione non ha alcuna utilità se non si affrontano alla base quei problemi strutturali di genere che hanno forti connotazioni di natura culturale.
Illuminanti, da questo punto di vista sono non solo i dati sull’occupazione, ma anche gli ultimi studi in termini di Gender Gap.
l’Italia in pratica sembra procedere a un ritmo più lento rispetto ad altri paesi, anche per ragioni di tipo culturale che influiscono sull’accesso all’istruzione universitaria e scientifica, oggi necessarie per affrontare le nuove professioni ad alto contenuto intellettuale.
Secondo gli ultimi dati, l’occupazione tra i 15 e i 64 anni è passata dal 58,2% al 60,1% (a fronte di una media UE del 69,9%) e l’occupazione femminile si attesta nei primi mesi del 2023 al 51,1% con un 14% in meno rispetto alla media europea (dati Eurostat).
L’Italia continua ad occupare gli ultimi posti in Europa per occupazione femminile ed è ultima nella fascia di età tra i 25 e i 34 anni. Segno della forzatura che sui dati dell’occupazione è ancora determinata dalle scelte familiari. Infatti, una donna su cinque abbandona il lavoro alla nascita del primo figlio. Segno evidente dello sforzo di cura che da sempre – proprio per ragioni di tipo culturale – è richiesto alla popolazione femminile.
Sforzo che si è fatto peraltro più pesante negli ultimi anni, sia per l’emergenza sanitaria sia per il progressivo invecchiamento della popolazione. Secondo l’ultimo Report dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro sulla convalidaDichiarazione o conferma di validità compiuta da un organo superiore o di controllo. More delle dimissioniL’atto unilaterale con cui il lavoratore comunica di voler interrompere il rapporto lavorativo con il datore di lavoro. More e delle risoluzioni consensualiSi ha risoluzione consensuale del contratto di lavoro quando il lavoratore e il suo datore pongono fine al rapporto lavorativo tramite un accordo. More delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri, delle 52.436 convalide totali, 37.662 (il 71,8%) si riferiscono a donne e 14.774 (il 28,2%) a uomini, con un netto aumento rispetto all’anno precedente.
Ci sono eventi specifici nel corso della vita che influiscono diversamente sulle donne rispetto agli uomini.
Basti riflettere sul percorso ad ostacoli che nell’ultimo secolo ha accompagnato il progressivo accesso delle donne ad alcuni settori dell’istruzione e delle professioni (da quelle legali a quelle medico-sanitarie e scientifiche) e a quanta influenza ha avuto, per questo processo di evoluzione, il passaggio da un’economia contadina e rurale, che voleva la donna dedita esclusivamente a compiti familiari, a una di tipo industriale, che ha visto il progressivo ingresso delle donne all’istruzione secondaria e terziaria e con essa ad un ruolo sempre più attivo nella società e nel lavoro (Report OECD – Gender, Education, and Skills: The persistence of Gender Gaps in Education and Skills).
Oggi, tuttavia, la posizione lavorativa femminile resta ancora pesantemente influenzata dalle responsabilità di cura. Da cui il lavoro part-time (anche involontario), i lavori marginali poco retribuiti, la scarsità di flessibilità propria di alcuni settori, le interruzioni di carriera.
Queste circostanze colpiscono le donne in modo maggiore rispetto agli uomini, con la conseguenza che riducendosi il tasso di partecipazione alla forza lavoro e/o il tempo trascorso nell’occupazione, si riducono anche la forza economica e l’anzianità contributiva.
Non solo, anche il Gender Pay Gap gioca un ruolo rilevante in questo scenario. Poiché le donne sono sottorappresentate nelle posizioni di vertice e in quelle più retribuite, l’importo che possono destinare ai risparmi e agli investimenti è spesso inferiore rispetto a quello degli uomini.
Secondo il Wealth Equity Index – sviluppato da WTW in collaborazione con il World Economic Forum – le donne arrivano alla pensione con appena il 74% rispetto alla ricchezza accumulata dagli uomini.
In Italia, secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio Jobpricing, nel 2021 la disparità salariale tra uomini e donne si attestava nel settore privato all’11,2% considerando la sola retribuzione annua lorda. Ma se si include anche la componente variabile il divario sale ulteriormente, arrivando all’12,2%. Cosa vuol dire in termini pratici?
Detto in altri termini, è come se le lavoratrici italiane lavorassero gratis a parità di condizioni per un intero mese all’anno. Tra l’altro, risulta che solo il 44% delle aziende effettua un attento monitoraggio dei livelli salariali (indagine INAZ, Future of Work).
Abbiamo quindi un problema di equità e temo che la sola certificazione della parità di genere da parte delle aziende più virtuose potrà fare ben poco se non si interviene anche su quei fattori culturali che continuano ancora oggi ad influire negativamente sui dati.
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