Dall’economista Azzurra Rinaldi un libro sull’impatto positivo dell’occupazione femminile, soprattutto nelle posizioni di leadership
Le donne sono manager dall’alba dei tempi: la stessa parola “economia” viene da oikos, casa, e la storia della lingua suggerisce che in quel regno, da sempre, le donne amministrano con sapienza. Ma improvvisamente, quando si esce dalle mura domestiche, qualcosa si spezza.
Come se di punto in bianco non fossero più capaci: spariscono le loro competenze, hard e soft, spariscono le donne stesse che nelle posizioni di potere sono mosche bianche.
Eppure questa mancanza non conviene a nessuno: non alle donne, che troppo spesso rinunciano alla carriera, e nemmeno allo Stato, che nel perdere tante talentuose lavoratrici perde anche un’importante fonte di gettito fiscale. Soldi che potrebbero tradursi in servizi migliori per la collettività.
Ne abbiamo parlato con Azzurra Rinaldi, Direttrice della School of Gender Economics presso l’Università Unitelma Sapienza di Roma e autrice del libro “Le signore non parlano di soldi”, edito da Fabbri Editori.
“Sul denaro, nel nostro Paese più che in altri, c’è tutta una narrazione negativa. Pare brutto parlarne per un uomo, figuriamoci per una signora. La ricchezza stessa è vista male: se una persona ha molti soldi passa in automatico per una “brutta” persona, non importa quanto onestamente li abbia guadagnati o se li usa anche per scopi benefici”.
“Nel caso delle donne questo fenomeno si fa ancora più pesante, ed è una mentalità molto radicata. Per dire, quando ho pubblicato il mio libro si è acceso un intenso dibattito: anche su LinkedIn, che rispetto ad altri social ha una popolazione piuttosto selezionata, c’è stata una quantità di commenti di persone che non hanno colto l’ironia, che dicevano “meno male, finalmente qualcuno inneggia al buon gusto”.
“Al contrario, il mio invito è proprio a parlarne, di soldi. Non c’è niente di male e se non lo facciamo, scompariamo. Nella nostra educazione, nella nostra società, le donne sono solo a casa, e nemmeno in famiglia viene riconosciuto loro il giusto peso decisionale. Consideriamo un dato: il 37% delle donne italiane non ha un proprio conto corrente, solo quello condiviso. Perché?”.
“Un danno economico molto importante, ma vediamola in positivo: far lavorare le donne conviene. C’è molta letteratura sul fatto che dove c’è una donna alla guida le aziende migliorano la performance. Perché? Siamo più brave?”
“In parte sì: le donne fin dalla scuola ottengono risultati migliori, si laureano prima e con voti più alti. Ma, soprattutto, quando entrano ai vertici di un’azienda portano un contributo esperienziale nuovo, diverso. Questo se ci pensiamo è ovvio: dove fino a ieri è sempre stato tutto deciso da uomini, nel momento in cui entra una donna porta per forza di cose una prospettiva diversa, quindi innovazione”.
“La letteratura ci dice che quando le donne diventano amministratrici delegate, o anche solo entrano nel board aziendale, il fatturato aumenta, le aziende migliorano il posizionamento sui mercati azionari, si creano nuovi sbocchi commerciali”.
“Naturalmente. Pensiamo: se abbiamo il 50% delle donne che non lavora, quella è una fetta di popolazione che di fatto non produce ricchezza. Se lavorassero, contribuirebbero ad aumentare il PIL e in più sul proprio reddito pagherebbero le tasse, che servirebbero ad aumentare o a migliorare i servizi per tutti. Invece le teniamo a casa a dedicarsi a incarichi di cura non retribuiti”.
“Questo è un problema eminentemente culturale: a noi piace la narrazione che si richiama a un passato che non esiste. Ci piace pensare alla bellezza di un mondo dove le donne stavano a casa a prendersi cura di una decina di figli, a fare l’angelo del focolare. Quest’immagine non ha alcun fondamento storico: le donne, escluse quelle nobili, hanno sempre lavorato”.
“In più, è un dato di fatto che per una famiglia monoreddito è già difficile crescere un figlio solo, figuriamoci più di uno”.
“Questa credenza diffusa che vuole le donne nemiche delle donne, per me, è una tra le massime vittorie del patriarcato. Quando vedi una donna che raggiunge una posizione di potere ti chiedi grazie a chi ci è arrivata. E la risposta normalmente è: un’altra donna o una rete di donne.
“Di fatto, la maggior parte delle relazioni all’interno della vita di una donna è proprio con altre donne: le nostre nonne vivevano più o meno in un gineceo, ma anche noi oggi tra mamma, sorelle, amiche, parenti e colleghe abbiamo una rete di legami che è fatta per lo più di donne”.
“E poi ci sono le statistiche: le donne cooptano altre donne. I meccanismi di cooptazione sono pochissimi: io, nel mio piccolo, se posso faccio volontariamente spazio ad altre donne. Perché rappresento una piccolissima, fortunata minoranza: sono una donna bianca, eterosessuale, che ha studiato. Ho un set di privilegi non comune. E allora, per solidarietà, quando posso “faccio spazio”.