Portare la diversità nella revisione dei modelli di organizzazione del lavoro è principio di legge. La certificazione della parità di genere ne è strumento
di Gianluca Spolverato
Il tema della diversità è di vastità e complessità tali che declinarlo solo con le parole della legge rischia di sminuirne il suo più alto valore etico e sociale. La normativa in materia di diversità ha conosciuto infatti diversi gradi di evoluzione nell’ambito del nostro ordinamento giuridico, ma oggi si compone di un elemento in più di natura organizzativa e sociale. Si tratta della certificazione della parità di genere.
La tutela delle diversità all’interno del nostro ordinamento giuridico è passata nel corso degli ultimi 50 anni dal generale divieto di discriminazione contenuto nello Statuto dei lavoratori – prima circoscritto alle ragioni di appartenenza politica, religiosa e sindacale, poi esteso a quelle di handicap, lingua, sesso, razza, convinzioni personali – ad una più marcata connotazione in termini non solo di pari opportunità, ma di equità, intesa principalmente come «tutela paritaria».
La legislazione degli ultimi venti anni è stata infatti influenzata dalla sempre più marcata necessità di allargare le tutele, avendo dapprima come obiettivo la posizione della donna all’interno della famiglia e poi in senso più ampio le necessità di conciliazione vita-lavoro, comuni a uomini e donne. In questo contesto, si colloca ad esempio l’art. 3 del TU sulla maternità e paternità (D.lgs. n. 151/2001), che pone il divieto di discriminazione in stretta connessione con lo stato di gravidanza e la genitorialità, ma anche la stessa legge delega sul riordino della legislazione speciale a tutela della maternità e paternità, per la parte dedicata al finanziamento dei progetti di conciliazione vita-lavoro (art. 9 L. n. 53/2000). Norma dalla quale sono scaturiti, a partire dall’inizio del nuovo millennio, i primi progetti di welfare. Nel medesimo contesto, in tempi più recenti, si può collocare anche la legge sulle unioni civili (L. n. 76/2016), che con carattere di assoluta novità per il nostro paese, prende a riferimento la famiglia quale comunità alla quale guardare, a prescindere dal genere dei suoi componenti. E, nella stessa cornice, troviamo oggi la nuova legge sulle pari opportunità di ottobre 2021 (L. n. 162/2021) che ha introdotto importanti modifiche di natura organizzativa al relativo Codice (D.lgs. n. 198/2006).
La legge introduce l’allargamento del concetto di discriminazione indiretta. Costituisce oggi discriminazione ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni:
Con questa legge entra oggi nel concetto di discriminazione anche la valutazione delle scelte e dei comportamenti di natura organizzativa che hanno diretta (e indiretta) influenza sulla gestione dell’orario e dei tempi di lavoro, avendo riguardo proprio al patrimonio e al substrato di situazioni personali e familiari che ciascun lavoratore porta con sé all’interno dell’azienda.
È una vera rivoluzione, perché pone alle organizzazioni un obiettivo di natura organizzativa prima ancora che giuridico. Impone in sostanza, un cambio di impostazione culturale che non può più essere riferito al solo rispetto normativo dei principi di parità e di uguaglianza, ma prevede azioni specifiche, per dimostrare di avere intrapreso la giusta direzione.
Lo sviluppo avuto dalla legislazione sembra porre in evidenza l’importanza delle diversità (per sesso o per etnia e cultura) già a partire dal nucleo familiare, quale comunità di valore per l’organizzazione dell’intera società. Da tutelare perché generativo di esperienze alle quali attingere, per supportare meglio le politiche di inclusione di quelle più grandi comunità organizzate che sono le aziende, anche al di là del genere.
Uguaglianza ed equità, infatti, non sono sinonimi.
L’uguaglianza (equality) ha a che fare con il dare a tutti esattamente le stesse risorse, mentre l’equità (equity) implica la distribuzione delle risorse in base alle esigenze dei destinatari. Quindi abbraccia la diversità, anche a prescindere dal concetto di genere o di etnia.
Lo strumento individuato dalla legge per dare concretezza al raggiungimento di questi obiettivi è quello della certificazione della parità di genere, cui conseguono anche meccanismi di premialità. Alcune aziende hanno già intrapreso questo percorso e sono oggi già certificate (Cameo; Banca Ifis) altre stanno iniziando ad affrontare questo passaggio epocale assistite dai propri consulenti e da operatori già specializzati come Winning Women Institute.
È anche questo un modo per dare significato all’obiettivo di mettere al centro le persone.
Leggi anche:
Parità di genere: bonus e premi alle aziende che si certificano