I dati sulle quota rosa nei CdA ci dicono molto a più di dieci anni dalla legge ma altri dati dicono che siamo ancora lontani
La legge sulle quota rosa nei consigli di amministrazione delle società quotate ha più di dieci anni (Legge n. 120/2011) e durante questo arco di tempo molta strada è stata fatta in attuazione di questa legge.
Da una ricerca diffusa a gennaio 2022 da Spencer Stuart, l’Italia sarebbe tra i paesi più virtuosi per la presenza di donne nei Consigli di Amministrazione delle aziende quotate. La legge prevede, infatti, che nelle società quotate almeno un terzo dei componenti del Cda debba appartenere al genere meno rappresentato. I dati dicono che in Italia – a poco più di dieci anni dall’approvazione della legge – il 36% dei componenti dei CdA è donna.
I dati sono quindi confortanti, ma la positività di questi dati va analizzata nella sua globalità, anche tenendo conto del fatto che quanto realizzato è in definitiva il frutto di un obbligo normativo. Obbligo senza il quale, difficilmente si sarebbe mosso qualcosa nel nostro Paese, dove accade spesso che alcuni importanti cambiamenti culturali debbano essere per così dire «forzati» dalla legge.
E infatti questi dati risultano fortemente sbilanciati solo nel ristretto ambito di operatività della legge.
Superando il ristretto limite della legge n. 120/2011, dal raffronto tra questi dati – seppure positivi – e i dati diffusi all’esito del periodo pandemico, emerge un quadro – è il caso di dirlo – «molto meno roseo». Quello che rileviamo è un generale abbassamento di opportunità per la popolazione femminile.
Seppure i temi dell’inclusione e della Gender Equality siano da tempo al centro delle strategie e del dibattito politico e sociale, tuttavia, se si guarda ai dati, essi ci dicono – impietosamente – che gli ultimi due anni hanno inciso negativamente e in misura maggiore proprio sulla popolazione femminile.
Nel 2020, quindi subito dopo il momento più difficile dell’emergenza sanitaria, molte sono state le dimissioniL’atto unilaterale con cui il lavoratore comunica di voler interrompere il rapporto lavorativo con il datore di lavoro. More da parte delle mamme con figli piccoli e tale tendenza si è poi accentuata nel 2021 (come attestato dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro).
Nel 2021 è poi consistentemente cresciuto il ricorso al lavoro part-time – sia maschile sia femminile – con una netta prevalenza di contratti conclusi con la popolazione femminile (dati Inapp – Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche – rapporto “Una ripresa a tempo parziale ). Se a questo si aggiunge il Pay gap (che porta taluno ad ipotizzare che di questo passo la vera parità retributiva possa essere raggiunta solo tra 100 anni..) e la Child Penalty (con cui si definiscono solitamente gli effetti della maternità sulla carriera delle donne), il quadro che emerge dai dati, si fa ancora più preoccupante: in base all’elaborazione Unioncamere e Anpal di marzo 2021 il divario di genere è salito a 120.000 posizioni nel rapporto sull’occupazione di uomini e donne. Non solo, sarebbero oggi oltre sette milioni le donne inattive in Italia tra i 30 e i 69 anni di età (ricerca Randstad di dicembre 2021) – il 43% delle donne in questa fascia di età contro il 24% della Germania e il 19% della Svezia – mentre, secondo la lettura dei dati Istat che ha fornito Confcommercio in questo mese di febbraio 2021 il tasso di occupazione femminile nella fascia di età 15-64 anni sarebbe del 33,2% nel Sud Italia, del 59,2% nel Centro-Nord (con una media del 49,5%) contro il 63% di media dell’Europa.
Eppure le donne si laureano generalmente prima degli uomini e con voti più alti. Sono creative, quando sono messe a capo di settori o intere aziende, sfruttano le capacità relazionali ed empatiche che oggi sono anche la chiave del successo dei nuovi modelli di leadership. Lo si è visto durante la pandemia, se da un lato il lavoro da remoto ha accentuato alcune disparità di genere, rendendo più pesante proprio il lavoro femminile tra necessità di cura familiare, lavoro e didattica a distanza, dall’altro ha aperto grandi potenzialità sul fronte delle nuove modalità flessibili di organizzazione del lavoro, che divengono oggi, insieme alle politiche di welfare, uno degli strumenti più efficaci per affrontare anche le diversità di genere.
Le donne risultano ancora scarsamente presenti nelle posizioni di vertice come CEO e in altri ruoli manageriali di vertice (il 2,4% – sostanzialmente agli stessi livelli di dieci anni fa quando è stata approvata la Legge sulle quote di genere nei CdA). Sempre Spencer Stuart ci dice che grazie alle politiche di welfare orientate al supporto alle famiglie quegli stessi dati sono assestati al 20% in Svezia, al 15% in Irlanda e al 12% in Danimarca.
Molta strada è stata fatta, ma molta strada resta ancora da percorrere.
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