“Non si assumono gay”: professionista condannato al risarcimento del danno

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(foto Shutterstock)

È discriminatorio affermare di non voler assumere lavoratori o collaboratori omosessuali, anche se non sono in corso procedure di assunzione. Il risarcimento del danno spetta anche alle associazioni LGBT

La Corte di Cassazione, con la sentenza numero 284646 del 11 novembre 2020, si è pronunciata in una nota vicenda, in cui un professionista, durante una trasmissione, aveva dichiarato di «non volere assumere e di non volersi avvalere della collaborazione, nel proprio studio, di persone omosessuali».

Queste dichiarazioni, portate alla ribalta nazionale, sono state ritenute discriminatorie nei confronti dei lavoratori omosessuali. Tutti i gradi di giudizio hanno riconosciuto il diritto al risarcimento del danno a favore della associazione Rete Lenford – Avvocatura per i diritti LGBT.

La normativa antidiscriminatoria e il procedimento speciale

 La tutela contro le discriminazioni sessuali sul posto di lavoro è disciplinata dal decreto legislativo n. 216/2003. Con tale legge è stata data esecuzione alla Direttiva 78/2000 della Comunità Europea che aveva l’obiettivo di armonizzare le normative nazionali «al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento».

Come riporta l’articolo 1 del decreto legislativo n. 216/2003, con questo intervento normativo sono state adottate le misure necessarie affinché l’orientamento sessuale non sia causa di discriminazione, «in un’ottica che tenga conto anche del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini».

Con riferimento al caso specifico, viene il rilievo la previsione della lettera a) dell’articolo 3, secondo cui il principio di parità di trattamento senza distinzione di orientamento sessuale si applica anche all’«accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione».
Per la tutela e la repressione delle condotte discriminatorio è stato introdotto un procedimento speciale, un processo con tempi più rapidi e formalità più snelle rispetto al rito ordinario.

 Tutela anche per le condizioni di accesso al lavoro

La normativa antidiscriminatoria si applica non solo alle condotte nei confronti di soggetti che stanno già lavorando, ma anche a chi sta cercando un nuovo lavoro. Come visto in precedenza, la parità di trattamento deve essere garantita anche nelle fasi di accesso all’occupazione «compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione». Sotto questo aspetto, la sentenza della Corte di Cassazione è interessante perché ritiene che, a prescindere dal fatto che fosse o meno in corso una procedura di selezione del personale, le dichiarazioni [1] di non voler assumere gay. Più precisamente, le dichiarazioni sono state valorizzate «in considerazione del pregiudizio, anche solo potenziale, che una categoria di soggetti potrebbe subire in termini di svantaggio o di maggiore difficoltà, rispetto ad altri non facenti parte di quella categoria, nel reperire un bene della vita, quale l’occupazione.

La discriminazione sessuale non è mai giustificata dalla libertà di pensiero

Il professionista si è difeso sostenendo che le dichiarazioni incriminate fossero in realtà espressione della libertà di pensiero, tutelata dall’art. 21 della Costituzione.

La Cassazione, aderendo a quanto in precedenza aveva già stabilito la Corte di Giustizia Europea, ha affermato che «la libertà di pensiero non ha natura di diritto assoluto e non può spingersi sino a violare altri principi costituzionalmente tutelati, quali, nella specie, gli artt. 2,3,4 e 35 Cost. che tutelano la parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro e la realizzazione di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale».

Risarcimento del danno a favore delle associazioni LGBT

La sentenza è interessante anche nella parte in cui ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno (quantificato in € 10.000 in via equitativa) a favore di una associazione impegnata nell’attività di prevenzione, tutela e promozione nel campo della lotta alla discriminazione per orientamento sessuale e identità di genere.

Le associazioni LGBT possono promuovere le cause contro le discriminazioni?

, secondo l’articolo 5 del decreto legislativo n. 216/2003 le associazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso possono agire in nome e per conto del soggetto discriminato e possono agire nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto ed immediato le persone lese dalla discriminazione. La normativa italiana ha dunque previsto che le associazioni possano agire anche, in nome proprio, in tutti i casi di discriminazione collettiva, ossia nelle ipotesi in cui non sia possibile individuare un preciso soggetto leso dal comportamento. Si tratta di una disciplina di miglior favore rispetto alla normativa comunitaria e per questo pienamente legittima.

E così è stato: l’associazione ha promosso la causa in Tribunale e le è stato riconosciuto il diritto al risarcimento del danno per le dichiarazioni discriminatorie rilasciate dal professionista.

 

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