Il senso più vero dell’Assegno di inclusione

Assegno di inclusione: una signora e un signore over 60 guardano fuori dalla finestra
(foto Shutterstock)

Il crescere delle disuguaglianze sociali pone l’attenzione sul valore di quello che da noi è oggi l’assegno di inclusione

Quale eredità ci hanno lasciato gli anni di pandemia? E quali sono gli scenari sul fronte economico e sociale anche a seguito delle crisi internazionali in corso?

Il crescere delle disuguaglianze sociali dovute anche all’impatto che la tecnologia e l’intelligenza artificiale hanno sul lavoro, sta ponendo da tempo all’attenzione di tutti quale sia il senso e il valore di un Reddito di base.

Uno scenario del tutto nuovo

Nel volgere di pochi anni sono cambiati tutti i punti di riferimento su cui ciascuno di noi ha fondato la propria vita: lunghi anni di pace che hanno favorito una crescita economica pressoché costante (seppure funestata da cicliche crisi economiche), la sicurezza di un lavoro costruito con costanza lungo tutto il proprio percorso di vita.

Un sistema di relazioni solido e continuo mai funestato fino alla pandemia da obblighi di distanziamento sociale. Uno scenario drasticamente cambiato nel volgere di pochi anni.

Ma il cambiamento non è storia solo recente e non dipende se non in minima parte dagli stravolgimenti degli ultimi anni. Possiamo invece dire che gli avvenimenti degli ultimi anni, avendo sottoposto la nostra società a una sorta di stress test, hanno contribuito ad aprirci gli occhi su una serie di criticità anche di natura economica e sociale che esistevano già da tempo.

I dati demografici

I dati ISTAT degli ultimi anni confermano la crescita di disuguaglianze sociali e con esse anche la decrescita del paese: la denatalità, la perdita di risorse che espatriano in misura sempre crescente, sono ormai dati accertati e se non si prendono drastiche inversioni di rotta si rischia di arrivare molto presto a un punto di non ritorno.

Si prevede che il rapporto tra giovani e anziani potrà essere di 1 a 3 nel 2050 e la popolazione in età lavorativa scenderà nell’arco di 30 anni dal 63,8% al 53%. Il totale della popolazione italiana – in calo costante – è stimato a 54 milioni nel 2050

Questo significa poche risorse di fiscalità generale per sostenere le necessità sociali connesse con l’invecchiamento della popolazione, ma anche scarsità di forza lavoro.

La polarizzazione del lavoro

Scarsità di lavoratori da un lato e dall’altro crescente valore di quelle figure che la rivoluzione tecnologica in atto sta già chiedendo da tempo.

Si parla tra gli studiosi di polarizzazione della forza lavoro: la gran parte delle persone è da anni impiegata in attività intellettuali, creative e ad alto impatto tecnologico in termini di competenze (Dati del World Economic Forum – The Future of Jobs Report), mentre il numero di coloro che sono impiegati in attività e compiti meramente esecutivi sta progressivamente calando.

Si tratta in misura prevalente di compiti esecutivi a basso valore che nella maggior parte dei casi sono già assorbiti dalla tecnologia o presto lo saranno. Molte attività di lavoro richiederanno meno “capitale umano” in termini numerici e più “capitale umano” in termini di specializzazioni tecniche sempre più puntuali e sofisticate.

È tutta colpa della tecnologia?

Alcuni studiosi sostengono che questo scenario – e le disuguaglianze che porta con sé anche per le generazioni future – sia proprio uno degli effetti dell’ingresso massiccio della tecnologia nelle attività lavorative.

L’azione combinata di progresso tecnologico, sviluppo organizzativo e globalizzazione – che ha caratterizzato pur con crisi cicliche la corsa economica degli ultimi 50 anni, bruscamente interrotta dalla pandemia e dalle emergenze internazionali in corso – avrebbe determinato la “proletarizzazione degli appartenenti alla classe media” in misura ben più veloce rispetto al fenomeno opposto di “imborghesimento dei proletari” (De Masi).  

Gli effetti più immediati

giovani con scarsa istruzione e i NEET (ossia i giovani che non studiano e non lavorano), le persone con disabilità e tra di loro quelle difficilmente collocabili, i lavoratori più anziani con una previsione di uscita dal lavoro ancora lontana e difficilmente ricollocabili per mancanza di quelle competenze tecniche oggi richieste dal mercato, appaiono quelli più coinvolti.

Penalizzati dalla polarizzazione sociale che segue la polarizzazione del lavoro, che non pare essere in grado di creare adeguati strumenti di sostegno per le fasce più deboli e da un mercato del lavoro che, seppure in ripresa, deve comunque trovare strumenti utili a non lasciare indietro i più deboli.

Al crescere delle disuguaglianze sociali si è accompagnato anche un più accentuato impoverimento di una parte della classe lavorativa.

Si sarebbe infatti innescato con la tecnologia e il conseguente incremento della produttività che questa porta con sé un meccanismo che se da un lato ha premiato specializzazioni, alta formazione, innovazione, creatività, intraprendenza e creazione di ricchezza (si pensi ai vari distretti tecnologici a livello globale), dall’altro non è stato in grado di innescare meccanismi virtuosi di redistribuzione della ricchezza prodotta, finalizzati proprio a sostenere i più deboli oppure a garantirne la ricollocazione.

Il valore di un reddito di base

È proprio questo il senso, il valore e la finalità che è sostanzialmente alla base di tutti i vari progetti – comuni a molti paesi europei – di un “reddito di cittadinanza” o “reddito universale” o “reddito di base incondizionato” o “reddito minimo”, comunque lo si voglia chiamare.

Un sostegno economico che sia in grado di sostenere economicamente i più deboli, coloro che non possono lavorare e coloro che nel passaggio tra vecchi e nuovi lavori necessitano di un aiuto soprattutto in termini di formazione. Uno strumento di passaggio tra vecchia e nuova economia, riconosciuto ormai essenziale anche a livello europeo come strumento di inclusione attiva (Proposta di Raccomandazione della Commissione UE sul reddito minimo). 

 

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