L’anno è cominciato con un rinnovato accento sui temi della sostenibilità, un imperativo privo di significato se non centrato anche sui temi del lavoro, ossia equità di genere, benessere, inclusione
Partiamo dalle statistiche sull’occupazione. Gli ultimi dati ISTAT di dicembre 2023 ci dicono positivamente che è cresciuto il numero degli occupati rispetto allo stesso periodo del 2022 (+456 mila unità). L’aumento – dicono i dati ufficiali – coinvolge uomini, donne e tutte le classi d’età, a eccezione dei 35-49enni per effetto della dinamica demografica negativa: il tasso di occupazione, che nel complesso è in aumento di 1,2 punti percentuali, sale anche in questa classe di età (+0,4 punti) perché la diminuzione del numero di occupati 35-49enni è (comunque) meno marcata di quella della corrispondente popolazione complessiva.
I dati, pertanto, mettono in evidenza – unitamente al dato positivo dell’occupazione – alcuni fattori che restano strutturali del nostro mercato del lavoro, e questi aprono a una riflessione più ampia su aspetti sui quali appare necessario lavorare ancora molto.
Innanzitutto, resta in primo piano il tema dell’equità di genere.
Seppure si osservi una crescita dell’occupazione su base annua, sia tra gli uomini sia tra le donne, (+1,4 punti tra gli uomini e +0,9 punti tra le donne), il tasso di occupazione continua a crescere maggiormente tra gli uomini rispetto alle donne.
Non solo, se si guarda proprio alla fascia di età maggiormente critica, ossia quella dei 35-49enni (che è peraltro la fascia di età con maggiori impegni familiari di cura) si osserva che è proprio in questa fascia di età che il tasso di disoccupazione diminuisce meno rispetto alle altre classi di età. Il che implica da un lato che l’occupazione femminile resta ad oggi ancora particolarmente fragile in Italia. E dall’altro, che i compiti di cura – che continuano a gravare in prevalenza sulla popolazione femminile – pesano significativamente sulle scelte occupazionali e questo non fa bene, come sappiamo, non solo al lavoro, ma all’intero sistema economico-sociale su cui è fondato il mercato del lavoro.
Quello che i dati ci dicono in modo non diretto è che alla base della significativa permanenza della disoccupazione nella fascia di età tra i 35 anni e 49 anni possono esserci da un lato scelte di transito verso altre forme di lavoro che assicurino maggiore flessibilità organizzativa nella gestione degli impegni familiari, come ad esempio il lavoro autonomo. Infatti, delle 456.000 unità di occupati in più 418.000 sono lavoratori subordinati e 42.000 gli autonomi.
E dall’altro, come sempre, che la disoccupazione e l’inattività in questa fascia di età nasconde anche forme di rinuncia al lavoro, in prevalenza da parte delle donne. Quando il rapporto vita-lavoro vede una predominanza delle esigenze di conciliazione alimentate dal disequilibrio tra investimento in un lavoro spesso scarsamente retribuito e lavoro familiare di cura carente di adeguato sostegno pubblico, il peso di queste rinunce finisce per gravare non solo sul diretto interessato ma sull’intera collettività. Come la lettura dei dati mette bene in evidenza. Con importanti implicazioni anche sociali.
Il Gender Equality Index – il rapporto redatto annualmente dallo European Institute for Gender Equality (EIGE), l’organismo autonomo dell’Unione europea che mira a promuovere e rafforzare la parità di genere – ha rilevato che resta alto per l’Italia il divario di genere in termini di compiti di cura.
Si stima infatti che siano sempre le donne e in misura costantemente maggiore rispetto agli uomini a partecipare ad attività di assistenza non remunerata di cura di altre persone all’interno dei nuclei familiari.
Non solo, l’ISTAT in occasione dell’Audizione sulla proposta di legge di introduzione di un salario minimo legale ha evidenziato come il 27,8% delle donne occupate nel nostro Paese presenti almeno un elemento di “vulnerabilità lavorativa”, riconducibile alla sussistenza di un contratto a termine o collaborazione (autonomo senza dipendenti), o presenza di part-time involontario, o entrambe le condizioni.
Tra gli uomini, la quota di lavoratori vulnerabili è del 16,2%. Questa condizione risulta particolarmente diffusa tra le giovanissime (45,7%), tra le straniere (40,7%) e tra le residenti al sud (36,2%) – (fonte Report Gender Pay Gap della Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro).
Eppure, le donne sono in numero maggiore nelle università e in genere si laureano prima degli uomini. Ma tuttavia sono ancora in numero basso nelle lauree STEM che sono oggi indispensabili per sostenere la transizione tecnologica verso i nuovi lavori.
Un migliore equilibrio di genere sul fronte dell’occupazione sarebbe certamente di aiuto. Porterebbe infatti vantaggi di natura economica, considerando che una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro peserebbe sul PIL per più di 11.000 miliardi (il 14% del PIL dei paesi del G20 secondo le stime dell’Observatory on women empowerment).
Ma avrebbe anche vantaggi sul piano sociale e organizzativo. Se, infatti è vero che le donne si laureano generalmente prima degli uomini e con voti più alti, va altresì considerato che quando le donne sono messe a capo di settori o di intere aziende sono più propense a sfruttare sul lavoro la creatività e le capacità relazionali ed empatiche che oggi sono anche la chiave del successo dei nuovi modelli di leadership.
La diffusione di queste qualità caratteriali e comportamentali è oggi fattore fondamentale di sviluppo delle capacità e delle competenze per tutti. Uomini e donne. Anche al di là di quelle competenze tecniche e specialistiche, sempre più richieste dal mercato del lavoro, che si acquisiscono attraverso lo studio e la formazione.
La vera sfida per le organizzazioni non è solo quella di saper coltivare e far crescere ambienti di lavoro nei quali vi sia un corretto equilibrio di genere ma quella di saper far crescere ambienti di lavoro inclusivi nei quali alimentare il giusto equilibrio tra le competenze tecniche sempre più ricercate dal mercato e le fondamentali qualità umane e relazionali che donne e uomini possono portare negli ambienti di lavoro. Favorendo così anche il patto tra le diverse generazioni al lavoro.
Patto che è possibile realizzare attraverso la costruzione di seri percorsi di inserimento al lavoro attraverso l’utilizzo di tutti gli strumenti contrattuali a disposizione, con la consapevolezza di dover integrare – a livello nazionale e a livello territoriale – la formazione tecnica, la formazione tecnica superiore, il mondo universitario, il mondo delle imprese e delle istituzioni.
La formazione di base forma l’individuo, ne apre le prospettive di crescita individuale e sociale. La formazione specialistica, tecnica e universitaria deve essere invece in grado di garantire l’ingresso nel mondo del lavoro in partnership con le istituzioni operanti a livello territoriale. Agli ambienti di lavoro, ai tutor e al network che si crea attraverso il lavoro è invece affidato il compito di far crescere l’esperienza ma anche le qualità umane – caratteriali e comportamentali – che alimentano il talento, la creatività e l’innovazione.
Diversi sono gli strumenti a disposizione, dall’apprendistato – tutte le forme di apprendistato – alle forme contrattuali che favoriscono proprio la staffetta generazionale, alimentando quel dialogo tra generazioni così importante per la crescita degli individui. Occupazione ed equità di genere, Benessere e Inclusione: questi temi, in agenda da tempo, divengono oggi più che mai fondamentali per il futuro del lavoro.
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