Il dibattito in corso sulla riforma delle pensioni deve includere anche la previdenza complementare? In che misura?
Nel dibattito in corso sulla riforma delle pensioni, che coinvolge tutti, un ruolo fondamentale è giocato dalla previdenza complementare. Nei giovani è ancora troppo bassa la consapevolezza del ruolo che ha il secondo pilastro nella costruzione di un futuro pensionistico.
Infatti, sono proprio loro a essere oggetto di particolare attenzione da parte del Governo, proprio per il rischio che a fine carriera l’assegno pensionistico – che per tutti gli assunti successivamente al 1996 è caratterizzato dal metodo contributivo – non raggiunga il minimo (attualmente 1,5 volte l’assegno sociale che per il 2023 ammonta a euro 503,27).
Il metodo di calcolo contributivo è fondato sulla somma virtuale dei contributi che vengono versati durante tutta la vita lavorativa, rivalutati annualmente sulla media di crescita del PIL degli ultimi 5 anni.
A fronte di una pensione INPS che viene rivalutata sulla base dell’andamento dell’economia, i contributi versati alle forme di previdenza complementare funzionano invece a capitalizzazione, ossia sono una vera e propria forma di risparmio che, anche se accessibile solo al momento del pensionamento, viene rivalutato in base all’andamento del mercato finanziario.
Le risorse destinate alle prestazioni dei Fondi pensione sono rilevanti: a dicembre 2022 risultano infatti a 205 miliardi di euro (fonte COVIP). Viene allora da chiedersi come valorizzare il ruolo della previdenza complementare?
La previdenza complementare è caratterizzata dalla coesistenza di diversi soggetti che svolgono istituzionalmente l’attività di gestione finanziaria dei contributi versati dagli iscritti.
Fondi pensione chiusi e Fondi pensione aperti che scaturiscono da fonti negoziali: ad esempio Fonchim, per il settore chimico e Cometa, per il settore metalmeccanico, sono Fondi negoziali chiusi.
Ci sono poi i Fondi pensione preesistenti già istituiti prima del 15 novembre 1992 (ossia prima della legge delega che ha dato il via al secondo pilastro pensionistico), anch’essi spesso costituiti da una fonte negoziale.
E poi ci sono i Piani Individuali Pensionistici (PIP), forme pensionistiche complementari che scaturiscono da una scelta di investimento esclusivamente individuale, indipendente dalla condizione lavorativa.
Assofondipensione – associazione senza scopo di lucro che riunisce i principali Fondi pensione negoziali – ha fornito in occasione della propria assemblea annuale i dati delle adesioni ai Fondi da essa rappresentati.
Dati che si legano alle rilevazioni annuali effettuate dalla COVIP – l’autorità di vigilanza sui fondi pensione – per un totale di 3,806 milioni di iscritti nei soli Fondi negoziali.
Alla fine del 2022, le posizioni in essere presso le diverse forme pensionistiche complementari risultavano essere pari a 10,3 milioni, in crescita di 564.000 unità (+5,8 per cento) rispetto alla fine del 2021.
A tali posizioni, che includono anche quelle di coloro che aderiscono contemporaneamente a più forme, corrisponde un totale degli iscritti di 9,2 milioni (+5,4 per cento).
Le adesioni sono cresciute negli ultimi due anni ma – dicono le rilevazioni – la fascia di età più rappresentata è quella 34-54 anni, con una netta prevalenza dei lavoratori più anziani e con un tasso di partecipazione femminile molto più basso rispetto a quello maschile.
Donne e giovani appaiono così in netta minoranza e risulta essere molto ridotta l’adesione delle piccole e piccolissime imprese.
Secondo i dati diffusi, a essere privilegiate nella raccolta del risparmio previdenziale dei fondi sono le grandi aziende con una collocazione territoriale prevalente al Nord.
Non solo, l’incremento nella crescita delle adesioni – dice il rapporto COVIP – continua a dipendere principalmente dall’apporto delle adesioni contrattuali (circa 200.000), ossia quelle basate sui contratti collettivi in essere, che prevedono l’iscrizione automatica dei nuovi assunti dei settori di riferimento e il versamento di un contributo minimo a carico del datore di lavoro oltre ai contributi dei lavoratori. E questo è un elemento da valutare con molta attenzione. Vediamo perché.
La contribuzione ai fondi di previdenza complementare derivante dalle adesioni collettive è connessa alla scelta di destinare il TFR a previdenza complementare.
Dal 1° gennaio 2007, infatti, ciascun lavoratore deve dichiarare se vuole che il TFR in maturazione venga conferito al Fondo pensione o se invece preferisce lasciarlo in azienda.
Le aziende con almeno 50 addetti nelle quali il lavoratore opti per il mantenimento del TFR in azienda sono tenute a effettuare il versamento di queste somme al Fondo di Tesoreria costituito presso l’INPS.
Il Fondo di Tesoreria, però, non ha la stessa funzione di un fondo di previdenza complementare e il TFR non muta la sua natura giuridica. Le somme versate al Fondo di Tesoreria non godono dei rendimenti di cui invece godono le somme che sono versate a previdenza complementare.
Non solo, le quote di TFR che confluiscono nel Fondo di Tesoreria soggiacciono al regime ordinario della indisponibilità (a eccezione degli anticipi previsti per legge e delle liquidazioni derivanti dalla cessazione del rapporto di lavoro) e non possono godere del regime della portabilità – ossia della possibilità del trasferimento ad altro Fondo – di cui godono invece i contributi ai Fondi, una volta che sia passato il periodo di tempo minimo di permanenza nel Fondo previsto dai rispettivi Statuti.
In definitiva, la mancata contribuzione alla previdenza complementare attraverso il conferimento del TFR si traduce per gli individui in una perdita in termini di risparmio attuale e di rendimenti futuri.
E questo non solo nelle aziende più piccole – sotto i 50 addetti – per le quali il TFR può restare in azienda, come è sempre avvenuto, ma anche nelle aziende più grandi, nelle quali il TFR non destinato a previdenza complementare viene obbligatoriamente versato dal 2007 al Fondo di Tesoreria INPS.
Si pensi, infatti, che in base alle regole di funzionamento dei Fondi pensione, un lavoratore di prima occupazione per i primi 5 anni di partecipazione al Fondo potrebbe dedurre dal reddito complessivo i contributi versati in misura anche eccedente il limite ordinario di euro 5.164,57, per un importo massimo che arriva fino a euro 2.582,29 annui in più.
È necessario portare le nuove generazioni a investire di più nel proprio futuro previdenziale anche attraverso il secondo pilastro. E questo può essere fatto soprattutto all’inizio dell’attività lavorativa, sfruttando ad esempio la possibilità di versare una quota maggiore di contributi con l’aiuto dei genitori, ai quali si deve ancora oggi una parte importante di ricchezza diffusa e di supporto alle nuove generazioni.
È sicuramente un’opportunità da sfruttare per la generazione che farà presto il proprio ingresso al lavoro. Questi giovani sono particolarmente attenti ai temi della sostenibilità e, in base alla Direttiva UE Iorp2, tutti i Fondi pensione sono tenuti a inserire criteri ESG nei propri Statuti.
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