Dal sesso all’età, dalla professione alla salute: le espressioni discriminatorie fanno parte della lingua comune e spesso passano inosservate
La lingua è fatta di automatismi, abitudini, convinzioni che si radicano nel tempo. Molte espressioni discriminatorie vengono pronunciate in totale buona fede, senza cattiveria, anzi talvolta con intenzioni benevole. Come riconoscerle? Come evitarle?
Ce lo spiega Alexa Pantanella, esperta in linguaggi inclusivi, fondatrice di Diversity & Inclusion Speaking e speaker di TED.
La premessa di Pantanella, intervenuta alla Round Table dedicata da SHR Italia al tema del linguaggio inclusivo, è che, frequentemente, non c’è alcuna intenzionalità o cattiveria nell’adottare parole discriminanti.
«Precisando che qui non parliamo del linguaggio d’odio, che è volontariamente aggressivo e violento» spiega infatti Pantanella «dobbiamo partire dal presupposto che nel parlare tendiamo a seguire automatismi, non prendiamo propriamente una decisione.
Ci ritroviamo a usare in automatico parole, modi di dire, espressioni che abbiamo con noi da molto tempo e che si sono cristallizzate. Ma queste espressioni possono diventare veicolo di stereotipi, etichette, retaggi…lì succede l’inciampo».
Un esempio concreto e molto diffuso è quello delle riunioni aziendali. «Può capitare» continua Pantanella, «che nel presentare un collega uomo si usi “dottore” o “ingegnere”, perfino quando questa persona non ha realmente la qualifica. Mentre nel presentare la collega donna la si indica come signora o signorina.
Quest’ultimo è visto perfino come un complimento, sembra un’espressione gentile, strizza l’occhio all’età. Ma a chi diamo più valore professionale, al dottore o alla signorina?».
Le discriminazioni in base all’età sembrano colpire tutti senza distinzione. Non è esattamente così. «L’ageismo» spiega infatti Alexa Pantanella «consiste in forme di discriminazione solo sulla base dell’età anagrafica, sia over che under. Ne parliamo poco, non si nota perché tutto quello che diciamo sull’età è abbastanza socialmente accettato, affermazioni e battute sono percepite come normali.
Ma pensiamo alle conseguenze concrete: ai giovani si usa dire “Se non hai entusiasmo a inizio carriera, figuriamoci dopo”. Frase interessante, che offre prospettive due sensi: da un lato, per i giovani crea un’aspettativa di entusiasmo, creatività, innovazione. Come se ad ogni riunione dovessero arrivare con idea del secolo per ribaltare il business model.
E questo è falso: l’età anagrafica non è indicatore di energia o capacità di problem solving. Per contro, la stessa frase risulta discriminante anche nei confronti delle persone meno giovani, implicitamente etichettate come incapaci di entusiasmo e innovazione».
Anche la disabilità, su cui pure c’è stato un enorme lavoro in fatto di inclusione, resiste nel linguaggio quotidiano con espressioni estremamente discriminanti. «Pensiamo solo» esemplifica Pantanella «a frasi come “Vuoi che non ci riusciamo? Mica siamo handicappati/mongoloidi/ecc”.
In Italia le persone con disabilità sono una su quattro e spesso si tratta di disabilità non visibili, che quindi queste persone non sono tenute a dichiarare. Espressioni come quella citata colpiscono duramente una platea di persone molto più ampia di quanto si immagini.
E anche sul fronte professionale, per citare un esempio comune, le discriminazioni continuano ad essere molto radicate: parole come avvocata, ingegnera, sindaca o assessora continuano a suonar male a molte persone. Il titolo maschile, che dicono suoni meglio, richiama in realtà uno stereotipo rassicurante. Ma l’abitudine verrà con il tempo».
Come uscire, quindi, da questa rischiosa spirale di cattive abitudini? «Sicuramente con la formazione» dice Pantanella, «in particolare formazione che si ispiri a corsi in lingua straniera. Poi è importante evitare il più possibile gli inciampi, ma con la consapevolezza che è quasi impossibile eliminarli del tutto.
Anche la gestione a posteriori, quindi, diventa importante: se si scivola, è bene imparare a governare la situazione. E per quanto riguarda l’ambito lavorativo non possiamo aspettare che sia l’azienda ad occuparsene: l’azienda può dare l’input, può offrire formazione, ma poi il linguaggio è in mano alle persone.
Per mettere in moto il processo, quindi, serve prima di tutto la presa d’atto da parte dei singoli, attraverso un processo di responsabilizzazione. In altre parole, il cambiamento parte da noi».