Il Manager della Felicità

(foto Shutterstock)

Lo Chief Happiness Officer rieduca le imprese per creare ambienti di lavoro positivi per l’individuo e la collettività. E soprattutto, non promuove i leader “tossici”

Leggendo parole come “felicità” e “organizzazioni positive” a nessuno verrebbe in mente che possano fare riferimento a un contesto lavorativo. E invece sembra proprio che siano strettamente collegate a un’urgenza di cambiamento culturale che aleggia sul mondo del lavoro.
Un’esigenza che fa riferimento alla necessità di trasformare i luoghi di lavoro in contesti positivi, in cui le persone siano a loro agio, motivate, valorizzate, in cui si sentano rispettate, possano trovare un senso al loro operato, svolgendo le attività lavorative in un clima di collaborazione e serenità.
Questo con l’obiettivo di migliorare il benessere del singolo individuo e della collettività, al fine di creare – per quanto riguarda gli interessi aziendali – maggior coinvolgimento nella mission e nei valori, aumentare la reputazione dell’impresa come luogo appetibile in cui lavorare, diminuire il turnover, incrementare la produttività e dare una forte spinta all’innovazione.

IL CHIEF HAPPINESS OFFICER

Parliamo di fantascienza applicata alla grigia quotidianità? Forse. Nel frattempo però gli Chief Happiness Officer, i manager della felicità ci stanno provando. Le nuove figure infatti, comparse nei reparti HR degli Stati Uniti e più recentemente introdotte in Europa, hanno il compito di tenere sotto controllo la soddisfazione dei lavoratori e sviluppare iniziative e progetti per accrescerla, al fine di creare un ambiente lavorativo appagante.

Un lavoratore soddisfatto infatti è più legato all’azienda, ha meno probabilità di andarsene, ha un impegno maggiore e di conseguenza migliori prestazioni.
Il lavoro degli CHO non si limita ai programmi di welfare e ai benefit, ma agisce sull’ambiente, a partire dalla proposta di contratti adeguati, l’ascolto reale dei lavoratori, l’offerta di opportunità di crescita e di un luogo di lavoro confortevole.

A settembre 2019 si è svolta anche la prima edizione italiana del “Chief Happiness Officer”, che ha visto 54 HR & innovation manager, ceo, imprenditori, consulenti e professionisti all’opera per apprendere competenze, strumenti e pratiche per la costruzione e la gestione di organizzazioni positive. Tutti uniti dalla consapevolezza che sia necessario “ri-partire dalle persone e da ambienti di lavoro positivi”. I quali rappresentano un «modello culturale capace di generare e rendere sostenibili nel tempo dei luoghi in cui le persone fioriscono in relazione con altre per ottenere risultati individuali e collettivi dotati di senso profondo sia per l’individuo che per l’azienda».

L’evento è stato organizzato da IIPO, Italian Institute for Positive Organizations, il centro studi nato nel 2019 dalla collaborazione tra 2BHappy Agency e il professore Sandro Formica.

DA DOVE NASCE IL BISOGNO DI UN APPROCCIO DIVERSO

Ma questa infelicità dei lavoratori così diffusa da dove nasce? Certo lavorare di per sé è spesso noioso e stressante, tiene intrappolate le persone quotidianamente nello stesso luogo, con una media, in Italia, di 33 ore alla settimana, secondo un dato Ocse, circa cioè 1730 ore all’anno; però ci sono anche altri motivi a peggiorare l’umore dei lavoratori, ad esempio le problematiche di relazione.

Le analisi più recenti, riportate da IIPO, su produttività e job satisfaction indicano che:

  •  il 65% dei lavoratori non si sente apprezzato;
  •  il basso engagement genera un calo del fatturato del 32,7%;
  • 40 milioni di lavoratori soffrono di stress;
  • la perdita di produttività annuale corrisponde a 500 miliardi.

STOP AI LEADER “TOSSICI”

La terza causa per cui le persone abbandonano le imprese è legata a una cattiva leadership, e la relazione che influenza maggiormente il benessere di un lavoratore è proprio quella con il capo.

In un articolo di Daniela Di Ciaccio, co-founder di 2BHappy Agency, che parte proprio riprendendo il detto “le persone lasciano i propri capi, non le organizzazioni”, si afferma che all’interno delle aziende, nonostante tutti sappiano chi sono i “#badmanager”, si continua «a promuoverli, premiarli e lasciare che facciano danni alle persone, alla reputazione dell’azienda e al business».

«Nel 2004 l’Harvard Business Review pubblicò le venti idee per l’economia del futuro: tra queste figurava la proposta di Robert I. Sutton, professore a Stanford, che invitava le aziende a liberarsi da bastardi, arroganti, tiranni, maleducati e prepotenti – in una parola degli ‘stronzi’ – di qualsiasi età, sesso o livello”, alla luce delle numerose evidenze empiriche che dimostravano che il comportamento aggressivo, umiliante e totalmente indifferente alla componente umana di quelli che noi definiamo #badmanager, causa l’aumento del turnover e l’assenteismo, sgretola l’affiatamento dei gruppi, riduce l’engagement e crea danni enormi ai risultati di business». 

Quindici anni dopo, nonostante articoli, libri, talk e contenuti sui social, le aziende continuano a rimanere «incastrate in gerarchie disfunzionali, piene di simboli (e pratiche) di status e privilegi arcaici, che promuovono e premiano “capi” solo secondo criteri di competenza tecnica, non prendendo minimamente in considerazione il feedback dei collaboratori e arrivando così a perdere – secondo una ricerca recente – fino a 84 miliardi di sterline l’anno per cattiva gestione, solo nel Regno Unito».

La cattiva gestione si può curare, dice Di Ciaccio, utilizzando conoscenze e competenze raccolte in tutti questi anni e decidendo di cambiare, facendo emergere leader positivi che pratichino gentilezza e umiltà nelle relazioni tra colleghi; intercettando e smascherando dall’assunzione i “#badmanager”, “maleducati”, “insensibili”, “egopatici; richiamandoli in sede di valutazione delle performance e non promuovendoli a posizioni di leadership.

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