Per rilanciare il settore servono meno imposte e burocrazia. Va rivalutato il lavoro manuale
Crisi economica e calo dei consumi, tasse e burocrazia, a cui si aggiungono mancanza di credito e impennata degli affitti. Sono queste le principali cause che hanno messo in ginocchio l’artigianato italiano, costringendo molti imprenditori a cessare la propria attività negli ultimi dieci anni.
Le cifre parlano chiaro: tra il 2009 e il 2018 hanno chiuso oltre 165.500 unità (-11,3%), e nel 2018 16.300 imprese (-1,2%).
Un rapporto dell’Ufficio studi della CGIa di Mestre (Associazione artigiani e piccole imprese) ha delineato un quadro preciso, analizzando la situazione del settore ed evidenziando dati in negativo su tutto il territorio italiano, a eccezione del Trentino Alto Adige (+138 nel primo semestre del 2019).
Nel decennio in osservazione le maggiori difficoltà sono state registrate nel Mezzogiorno: in Sardegna con una contrazione del 18% (-7.664), in Abruzzo del 17,2% (-6.220) e in Umbria con un calo del 15,3% (-3.733).
Scendendo più a sud, Basilicata e Sicilia hanno perso il 15,1% delle imprese.
Il settore artigiano più colpito dalla crisi è stato l’autotrasporto, che negli ultimi 10 anni ha bruciato 22.847 imprese (-22,2%). A seguire, le attività manifatturiere con una riduzione di 58.027 unità (-16,3%) e l’edilizia con la chiusura di 94.330 unità (-16,2%).
Tra le aziende del settore produttivo, hanno riscontrato maggiori difficoltà quelle che producono macchinari (-36,1%), computer/elettronica (-33,8%) e i produttori di mezzi di trasporto (-31,8%).
In forte aumento, invece, imprese di pulizia, giardinaggio e servizi alle imprese (+43,2%), attività cinematografiche e produzione software (+24,6 %), magazzinaggio e corrieri (+12,3%).
A fine 2018 erano attive circa 1.300.000 attività, di cui, nei primi 6 mesi del 2019, 6.564 hanno chiuso i battenti.
I risultati peggiori li hanno segnati Emilia Romagna (-761), Sicilia (-700) e Veneto (-629). In controtendenza il Trentino (+138).
Per rilanciare il settore, secondo il coordinatore dell’Ufficio studi, Paolo Zabeo, è necessario abbassare le imposte, alleggerire il peso della burocrazia e rivalutare il lavoro manuale.
«Negli ultimi 40 anni – afferma – c’è stata una svalutazione culturale spaventosa. L’artigianato è stato dipinto come un mondo residuale, destinato al declino, e per riguadagnare il ruolo che gli compete ha bisogno di robusti investimenti nell’orientamento scolastico e nell’alternanza tra la scuola e il lavoro, rimettendo al centro del progetto formativo gli istituti professionali che in passato sono stati determinanti nel favorire lo sviluppo economico del Paese. Oggi, invece, sono percepiti dall’opinione pubblica come scuole di serie b».
Scuole che per Zabeo spesso rappresentano una soluzione in cui “parcheggiare” i ragazzi che non hanno predisposizione allo studio, oppure in cui trovare “l’ultima chance” per conseguire un diploma di scuola media superiore dopo gli insuccessi scolastici.
Oltre alle problematiche legate alla crisi di settore, sono molti gli imprenditori che incontrano delle difficoltà nel trovare personale.
Soprattutto nel nord Italia, spiega Renato Mason, segretario di CGIa, «si fatica a reperire nel mercato del lavoro giovani disposti a fare gli autisti di mezzi pesanti, i conduttori di macchine a controllo numerico, i tornitori, i fresatori, i verniciatori e i battilamiera. Senza contare che nel mondo dell’edilizia è sempre più difficile reperire carpentieri, posatori e lattonieri. Più in generale, comunque, l’artigiano di domani sarà colui che vincerà la sfida della tecnologia per rilanciare anche i “vecchi saperi”. Alla base di tutto, comunque, rimarrà il saper fare che è il vero motore della nostra eccellenza manifatturiera».
Oltre agli effetti economici e occupazionali, la riduzione del numero di attività artigiane e negozi di vicinato provoca delle ricadute sociali molto significative.
«Quando chiude definitivamente la saracinesca una bottega artigiana, – sostiene Zabeo – si perdono conoscenze e cultura del lavoro difficilmente recuperabili e la qualità della vita di quel quartiere peggiora notevolmente. Si assiste a una desertificazione dei centri storici e delle periferie urbane sia nelle grandi città che nei piccoli paesi». In aggiunta, c’è meno sicurezza, più degrado e il rischio di un impoverimento del tessuto sociale.