Contratti pirata e stipendi al ribasso

(foto Shutterstock)

Quasi due milioni di lavoratori sotto i minimi fissi dei contratti sindacali

Negli ultimi anni in Italia è cresciuto in modo vertiginoso il fenomeno dei “contratti pirata”, che formalmente sembrano contratti regolari, ma in realtà non lo sono, perché per i lavoratori significano stipendi più bassi, pochi diritti e tutele ridotte.

Soprattutto nei settori dove il costo del lavoro ha un peso importante, molti operai ricevono salari minimi inferiori del 25-30% rispetto al dovuto, hanno contratti di inserimento inadeguati e differenze sugli elementi che compongono la retribuzione. Le maggiorazioni per gli straordinari spesso sono più basse dell’80%, quelle per il notturno e festivo ridotte del 30%. E ci sono molte differenze svantaggiose anche per quanto riguarda indennità per malattia e infortunio, numero di ferie e permessi, finanziamento degli enti bilaterali. Non c’è contrattazione di secondo livello e welfare aziendale.
La situazione è particolarmente preoccupante nel tessile e soprattutto nel sud Italia, dove le paghe sono più basse anche del 50%, arrivando a una cifra inferiore a quella che si otterrebbe con la cassa integrazione o con il reddito di cittadinanza.

DOVE NASCE IL PROBLEMA

Secondo il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL), questa “giungla” contrattuale nasce perché, nell’ordinamento giuridico italiano, il datore di lavoro privato non è obbligato ad applicare un determinato contratto collettivo nazionale.
Nello stesso settore produttivo coesistono molti accordi collettivi nazionali e ogni organizzazione può auto-definirsi rappresentativa dei lavoratori dipendenti e concludere un accordo “nazionale” nello stesso settore con una controparte.
Nonostante l’Inps lo scorso anno abbia comunicato che avrebbe intensificato i controlli sulle aziende che versano meno contributi del dovuto, non è cambiato molto. 

NUMERI A CONFRONTO

Infatti negli ultimi anni il numero dei contratti nazionali depositato al Cnel è aumentato del 123,1% rispetto a 10 anni fa.
Nel 2008 c’erano 490 contratti depositati, mentre a fine 2018, ben 888. Il commercio, ad esempio, è passato da 91 a 229 accordi e l’edilizia da 28 a 72.
Delle 888 intese concluse, 229 riguardavano il settore del commercio e 110 gli enti e le istituzioni private. Nell’edilizia erano presenti 72 accordi, nei trasporti 66, in agricoltura 53; continuando con 43 nelle aziende di servizi, 42 per poligrafici e settore spettacolo, 40 per alimentaristi e agroindustria, 33 per i chimici, 32 per i tessili, 31 per meccanici, credito e assicurazioni, 20 nella pubblica amministrazione e 86 nei restanti campi.

Entrando nello specifico, per fare alcuni esempi, nel metalmeccanico si può avere un contratto con un minimo retributivo mensile pari a 1310,80 euro e un altro con uno stipendio minimo di 1000 euro (23,6% di differenza).
Nei trasporti, si può trovare un contratto con minimo tabellare 1328,17 contro i 958,70 di un altro (27,9% di differenza). Nell’alimentare, un mozzo impegnato nella pesca d’altura può passare dalla retribuzione minima tabellare di 1104,78 euro a una di 698,85 euro (36,8% di differenza).

Dal punto di vista dello Stato invece, l’ex presidente di Inps, Tito Boeri, stima che agevolazioni indebite e minori contributi abbiano creato un buco di 3 miliardi all’anno per le casse statali, coinvolgendo il 10% degli occupati italiani, ovvero 1,7-2 milioni di lavoratori.

PROPOSTE

I Cinque stelle e il PD propongono di contrastare il fenomeno attraverso il salario minimo, soluzione che risulta sgradita a sindacati e ad associazioni d’impresa come Confindustria, Confcommercio, Confersercenti e altre.

Il presidente del Cnel, Tiziano Treu, vorrebbe istituire una banca dati dei contratti collettivi, in collaborazione con l’Inps, un’anagrafe che permetta sia di verificare in modo più agevolato il rispetto dei minimi contributivi sia di avere una mappatura aggiornata dello stato della contrattazione collettiva nazionale. E di capire quali siano i contratti di riferimento di settore, «tracciando una linea di demarcazione tra pluralismo contrattuale e pratiche sleali».

Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, a inizio 2018, nella loro riforma della contrattazione hanno definito un documento sulla rappresentanza, in modo che diventi misurabile anche la rappresentatività delle imprese, oltre a quella dei sindacati. Perché esso diventi operativo, il Ministero del Lavoro deve sbloccare la convenzione con l’Inps per avviare la certificazione e il Parlamento deve adottare una legge sulla rappresentanza, cosa che non è ancora avvenuta, nonostante le richieste di sindacati e imprese.

 

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