"Great resignation", conseguenze anche su stipendi. In Italia lo scorso anno si sono dimessi 1,3 milioni di lavoratori. Ecco il loro identikit
L’onda ha iniziato a crescere subito dopo la fase più acuta della pandemia. Centinaia, migliaia, poi milioni di persone che hanno liberamente scelto di abbandonare il proprio lavoro per i motivi più vari. Ma, alla base di tutto, c’è stata la presa di coscienza che il nostro tempo è limitato, e non vale la pena sprecarlo con un lavoro che ci rende infelici.
L’identitkit del dimissionario tipo? Secondo gli studiosi de Lavoce.info, è tendenzialmente uomo, di età superiore ai quarant’anni, con il diploma di scuola superiore e con un contratto di lavoro attivo da diversi anni.
Il fenomeno, inizialmente, ha preso piede con una più solida diffusione negli Stati Uniti, dove è stata coniata anche la definizione di “great resignation”, o “big quit”. E, sempre negli States, ha anche già generato un contraccolpo nella gestione degli stipendi: lo scorso anno sono aumentati del 4% rispetto a 20 anni fa. In Italia, per dare una misura, dal 1990 ad oggi sono calati in media del 2,9%.
Ma anche nel Belpaese, forse, la situazione è destinata a cambiare. Certamente negli Usa i numeri sono maggiori: prima del Covid i dimissionari erano poco più di 3,5 milioni al mese, a metà del 2021 hanno raggiunto quota 4 milioni, fino a toccare i 4,4 milioni a settembre scorso.
L’Europa segue il trend a non molta distanza, con tassi di vacancy rate (posti vacanti) arrivati al 2,4% (erano del 2,3% nel 2019). Il picco massimo si ha in Repubblica Ceca (5,1%), il minimo in Spagna e Grecia, sotto l’1%. L’Italia si posiziona all’1,8%. Nel dettaglio, confrontando i dati del secondo trimestre 2020 con quelli del secondo trimestre 2021, l’aumento registrato è dell’85%.
In numeri assoluti, nel 2021 secondo l’INPS abbiamo raggiunto 1,3 milioni di dimissioni volontarie.
I motivi che spingono le persone a lasciare il lavoro sono i più diversi: una spiegazione potrebbe stare nel ricollocamento di lavoratori che scelgono di spostarsi da un settore in crisi verso uno in crescita.
Se invece l’innalzamento del tasso di dimissioni dovesse essere solo temporaneo, potrebbe attribuirsi ad un mercato del lavoro che è rimasto fermo per molti mesi. Per quanto riguarda i dati americani, fra le spiegazioni avanzate c’è anche la pioggia di aiuti pubblici arrivata in conseguenza della pandemia.
Sicuramente, tuttavia, ha avuto un peso determinante un fattore psicologico, dovuto alla presa di coscienza che il nostro tempo è limitato e ha un valore.
Lavoce.info, sulla base di un’approfondita analisi statistica, ha tratteggiato anche un identikit dei dimissionari, definendone numerosi dettagli. Un dato schiacciante riguarda il sesso: tra gli uomini le dimissioni volontarie sono aumentate del 70%, mentre fra le donne “solo” del 30%.
Nel confronto con il 2019, si registra anche un aumento di dimissioni che è proporzionale all’età: la quota massima (21%) si raggiunge tra gli over 50. Guardando al totale complessivo, tuttavia, la suddivisione fra le varie classi d’età è abbastanza omogenea.
Quanto al livello d’istruzione, l’aumento di dimissioni più sensibile si ha tra i diplomati di scuola superiore (+33%), ma nel confronto con il 2019 la differenza è più accentuata fra i laureati.
Un altro dato rilevante che emerge dall’indagine è l’altissimo numero di dimissioni da contratti a tempo determinato, che crescono di oltre il 20 per cento e pesano per oltre la metà del totale. Un dato che certamente stona con la lettura diffusa in questi mesi, secondo cui molti lavoratori avrebbero lasciato il posto fisso per cambiare vita.