La fuga dei giovani

(foto Shutterstock)

In 10 anni 250 mila ragazzi italiani si sono trasferiti all’estero. La loro partenza costa allo Stato 16 miliardi di euro, in termini di perdita di Pil prodotto dal lavoro e di risorse “formate”

Quasi 250 mila ragazzi hanno lasciato l’Italia per trasferirsi all’estero negli ultimi 10 anni, per lo più in Inghilterra e Germania. Sono giovani tra i 15 e i 34 anni, provenienti in prevalenza da Lombardia, Sicilia, Veneto e Lazio. Il 64% di loro ha un titolo di studio medio-alto.
Il Regno Unito, Londra nello specifico, è la meta che prediligono, seguito da Germania, Svizzera, Francia, Spagna e fuori dall’Europa da Brasile, Stati Uniti, Australia, Canada ed Emirati Arabi.

Il “Rapporto sull’economia dell’immigrazione” 2019, realizzato dalla Fondazione Moressa, stima che la fuga di questi ragazzi costi allo Stato italiano 16 miliardi di euro, intesi come mancato Pil prodotto dal lavoro, senza contare l’investimento familiare e statale nella loro istruzione.

LE CAUSE

La causa scatenante delle partenze è principalmente il lavoro, che spinge i giovani ad andarsene dall’Italia senza prospettive di rientro.
Nel 2018 in Italia il tasso di occupazione giovanile nella fascia 15-24 anni era di circa il 17%, mentre all’estero saliva a più del 50%.
Analizzando invece i dati del rapporto relativo alla fascia di età 25-29 anni, l’occupazione si attestava al 54,6%, 20 punti in meno rispetto alla media dell’Unione europea.

Oltre alla situazione occupazionale italiana, sono diversi i motivi per cui i giovani fuggono all’estero: hanno una prospettiva di stipendi più elevati, incontrano maggiori occasioni di carriera, più meritocrazia e meno difficoltà burocratiche e finanziarie per aprire una propria attività. A questo si aggiunge la ricerca di esperienze che arricchiscano il bagaglio professionale e personale.

Secondo i dati Istat nel biennio 2016-2017 si sono trasferiti all’estero 56 mila laureati, su cui le casse dello stato avrebbe investito circa 7 miliardi (dato Cnr).
Ad andare all’estero non sono soltanto i ragazzi provenienti dalle regioni più povere, ma piuttosto quelli appartenenti alle regioni più ricche, da città con una qualità della vita elevata come Bolzano, Mantova, Vicenza, Trieste, Varese, Como, Trento.

Alla base delle loro partenze sembrano esserci però anche ragioni psicologiche e culturali, aspirazioni di crescita non soddisfatte, una ricerca di fare esperienza in aziende innovative dove sia possibile un rapido sviluppo professionale.

«Perché vanno via tanti giovani italiani istruiti e benestanti? – si chiede Beppe Severgnini sulle colonne del Corriere della Sera – Troppi meccanismi italiani sono lenti, faticosi e irritanti. Succede nelle università, nella sanità, nelle aziende medio-piccole. Succederebbe nei media, ma c’è lo scoglio della lingua: un ingegnere italiano ha mercato negli Usa o in Germania; uno sceneggiatore o un giornalista, quasi mai. […] Partire è bello, l’Europa sta lì anche per questo. Ma esiste una differenza tra esplorare e scappare, senza possibilità di ritorno. Gli italiani di domani volano via, e noi li buttiamo giù dal nido».
Sta a un governo attento creare le condizioni per il ritorno.

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