Se l’Unione Europea impone la trasparenza delle retribuzioni

Trasparenza delle retribuzioni

È entrata in vigore in agosto e dovrà essere recepita entro il giugno 2026 la nuova direttiva europea che impone alle imprese di informare ogni dipendente sulla paga media di coloro che svolgono un lavoro dello stesso livello

    di Pietro Ichino

    Il clamore infondato circa la confrontabilità delle retribuzioni individuali

    Ha suscitato qualche scalpore la notizia dell’emanazione della nuova direttiva Ue n. 2023/970, che prevede l’attribuzione a tutte le persone dipendenti da un’impresa il diritto di confrontare la propria retribuzione con quella degli altri dipendenti che svolgono un lavoro di pari livello

    Lo scalpore è dovuto al fatto che in Italia si è radicata nell’opinione pubblica una concezione della privacy – ovvero del diritto al riserbo sulle notizie personali – largamente esagerata, tale da ostacolare anche la circolazione di notizie che non meriterebbero affatto di essere protette da quel diritto: tra queste, in particolare, il dato relativo al reddito personale. 

    In realtà, la legge italiana non dice affatto che i redditi delle persone costituiscano notizia riservata. A stabilirlo fu una improvvida e giuridicamente molto discutibile delibera del Garante dei dati personali, che nel 2008 di punto in bianco vietò all’Agenzia delle entrate di rendere accessibili via Internet i dati delle dichiarazioni dei redditi. Accessibilità che invece a me sembra si giustifichi agevolmente, per un verso in considerazione dell’interesse apprezzabile di ciascun cittadino a conoscere il contributo di ogni altro cittadino al bilancio pubblico e a poterne verificare la congruità; per altro verso in considerazione dello scarso o nullo valore sociale dell’interesse della persona all’inconoscibilità del proprio reddito.

    Che cosa prevede la nuova direttiva

    Le vestali della privacy possono comunque stare tranquille: la direttiva Ue n. 2023/970 – il cui termine di recepimento per gli stati membri scade peraltro fra tre anni, nel giugno 2026 – non prevede l’istituzione di un obbligo per la datrice di lavoro di comunicare l’ammontare delle retribuzioni dei singoli dipendenti, bensì soltanto di comunicare l’ammontare medio delle retribuzioni delle persone che svolgono mansioni comparabili, cioè di pari livello, con evidenziazione delle eventuali differenze tra uomini e donne (articoli 7-9). E prevede anche che gli stati membri possano limitare l’accesso a queste informazioni ai soli rappresentanti sindacali, ispettori del lavoro e organismi preposti alla promozione della parità di genere (articolo 12, comma 3).

    Per altro verso, la stessa direttiva ricorda espressamente (articolo 7, comma 5) che, come ogni altro diritto riconducibile alla nozione di privacy, anche il diritto al riserbo sulla propria retribuzione è pienamente disponibile, cioè suscettibile di rinuncia: a nessuno può essere impedito di fare quello che vuole non soltanto dei diritti alla propria immagine, all’inaccessibilità del proprio domicilio, alla non conoscibilità della propria corrispondenza, ma anche di qualsiasi diritto che concerna le proprie notizie personali, ivi compresa quella relativa ai propri redditi. 

    Nulla vieta, dunque, che le singole persone – eventualmente rispondendo a un appello dei rappresentanti sindacali aziendali o del sindacato – rendano pubbliche le proprie buste paga.

    L’utilità della circolazione delle informazioni sui redditi di lavoro

    L’intendimento del legislatore europeo sotteso alla regola della conoscibilità delle retribuzioni individuali è quello di consentire alle singole persone e alle organizzazioni sindacali di esigere l’esplicitazione di un motivo congruo per qualsiasi differenza di retribuzione tra persone di genere diverso svolgenti mansioni dello stesso contenuto e livello professionale.

    È lo stesso principio che in Italia è stato enunciato più di trent’anni fa dalla sentenza n. 103/1989 della Corte costituzionale. Quella sentenza partiva dal riconoscimento della possibilità per l’imprenditore di differenziare i trattamenti al di sopra dello standard minimo secondo criteri non vietati, quali possono essere quelli attinenti ai titoli di studio o di formazione, alla produttività effettiva del lavoro, alla posizione della persona nel mercato, ai carichi di famiglia; ma affermava il dovere dell’imprenditore medesimo, se richiesto, di esplicitare i criteri sui quali la differenziazione si fonda. 

    È questo dovere – ha chiarito la Consulta con quella sentenza – che distingue il corretto esercizio delle prerogative imprenditoriali dall’arbitrio signorile.

    Il rischio maggiore di un regime di questo genere – che riconosce la legittimità della differenziazione di trattamento al di sopra dello standard minimo, imponendone però la verbalizzazione del motivo – è quello dell’appiattimento dei trattamenti, là dove a una sana e incisiva gestione del potere organizzativo dell’imprenditore si sostituisca una sostanziale burocratizzazione della vita aziendale, con la conseguente omologazione del lavoro nell’impresa all’impiego pubblico (dove, per quieto vivere, il management solitamente abdica alle proprie prerogative direttive e organizzative). 

    Ma non è stato questo l’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 103/1989: se un dato negativo va registrato, al riguardo, è semmai la scarsa valorizzazione del principio in essa enunciato da parte del movimento sindacale e la sua mancata metabolizzazione da parte del sistema delle relazioni industriali. La speranza, ora, è che la nuova direttiva europea aiuti a superare il ritardo.

    Il rischio che, ancora una volta, il nuovo strumento venga sottoutilizzato

    Proprio quanto è accaduto nel trentennio successivo a quella sentenza della Consulta induce anche a non sopravvalutare il rischio, che pure è stato paventato da qualcuno, di un aumento sensibile del contenzioso giudiziale come conseguenza dell’attuazione in Italia della direttiva europea n. 2023/970. 

    Questo rischio era già stato sottolineato in riferimento alla legge n. 125/1991, attuativa di un’altra direttiva europea, contenente il divieto generale delle discriminazioni di genere, dirette o indirette (il cui contenuto è in molti punti sovrapponibile al contenuto della nuova direttiva qui in discussione). Ma, anche in riferimento a quella legge, a trent’anni di distanza ciò che si deve lamentare è semmai la scarsità del contenzioso giudiziale da essa suscitato, rispetto al contenzioso su altri temi che forse lo meriterebbero di meno.

    Sarebbe interessante uno studio sui motivi sistemici che trattengono le donne dal far valere il proprio diritto alla parità di trattamento con gli uomini nei luoghi di lavoro e dall’utilizzare più largamente gli strumenti giudiziali che a questo fine l’ordinamento pone loro a disposizione.

    Articolo pubblicato il 29 agosto 2023 su lavoce.info e tratto dal sito www.pietroichino.it

     

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