L’azienda guadagna su gestione degli spazi fisici, assenteismo in calo e produttività in crescita. Ma attenzione a overworking e tecnostress
Lo smart workingÈ una nuova modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, introdotta dalla l. 81/2017 e caratterizzata dall’assenza di precisi vincoli di orario e di luogo di lavoro per il dipendente. More fa bene al business? La risposta, dicono gli esperti, è sicuramente sì, ma a patto che sia ben gestito. La flessibilità migliora il work life balance, permette una migliore gestione del tempo e per l’azienda può rappresentare un’importante fonte di risparmio per quanto riguarda le strutture e i servizi.
Ma attenzione: il rischio, come suggeriscono i dati raccolti in questi anni, è quello di trascurare le comunicazioni e i rapporti interpersonali, sovraccaricare i dipendenti o gestire male il flusso di informazioni e l’organizzazione delle riunioni. Questo inevitabilmente porta le persone ad una condizione di stress, che nuoce anche al benessere e quindi alla produttività. È quanto emerge dai report annuali dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, che monitora il fenomeno già da diversi anni.
Partiamo da una precisazione: lo smart working non è il telelavoro. Nel primo caso, da definizione del Ministero del Lavoro, parliamo di una formula contrattuale caratterizzata «dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro». Si tratta quindi di una modalità di lavoro diversa soprattutto nell’organizzazione, che a sua volta consente anche una maggiore libertà per quanto riguarda gli orari e la sede lavorativa. Per telelavoro, invece, si intende l’attività lavorativa che si svolge regolarmente in un luogo diverso dall’azienda, ma con orari e obiettivi che in nulla differiscono da quelli del lavoro tradizionale.
Già nel 2018, quindi due anni prima della pandemia, secondo l’Osservatorio smart working una grande impresa su due (il 56% del campione) aveva avviato progetti strutturati di smart working, adottando modelli volti alla flessibilità di luogo e orario, e promuovendo la responsabilizzazione sui risultati. I lunghi periodi di lockdown che si sono susseguiti a partire da febbraio 2020 hanno dato un’accelerata a questo processo, portando grandi benefici per i lavori ma anche all’emergere di tutte le controindicazioni dello smart working non ben organizzato.
Secondo l’ultimo report dell’Osservatorio, presentato a fine 2021, il tecnostress (cioè gli impatti negativi a livello comportamentale o psicologico causati dall’uso delle tecnologie) ha interessato un lavoratore su quattro, in misura maggiore smart worker (28% contro il 22% degli altri dipendenti). Alcuni possibili effetti negativi del tecnostress sono il peggioramento del work-life balance e dell’efficienza. Anche l’overworking ha coinvolto il 13% dei lavoratori e in misura maggiore gli smart worker (17% contro 9%).
Per contro, «i benefici economico-sociali potenziali dell’adozione di modelli di lavoro agile» dice Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working, «sono enormi. Si può stimare un incremento di produttività del 15% per lavoratore, una riduzione del tasso di assenteismo pari al 20%, risparmi del 30% sui costi di gestione degli spazi fisici. Per questo la rivoluzione non va fermata, ma anzi bisogna accelerare e promuovere la diffusione delle iniziative nelle diverse organizzazioni presenti sul territorio».
Dopo due anni di sperimentazione la situazione va oggi normalizzandosi, con un progressivo aumento dei benefici. Secondo i dati dell’Osservatorio, infatti, tutte le organizzazioni mettono oggi in luce un forte miglioramento del work life balance e un deciso miglioramento di efficacia ed efficienza. Più incerto e controverso l’impatto su tali prestazioni nelle PMI. L’aspetto ritenuto tuttora più negativo da tutte le organizzazioni è invece quello della comunicazione tra colleghi, peggiorata per il 55% delle grandi imprese.