Il “decreto Ferragosto” ha prolungato il termine del divieto di licenziamenti collettivi e individuali per motivi economici, ma con importanti eccezioni
di Gianluca Spolverato
Lo scorso 14 agosto è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legge 104/2020, il cosiddetto “decreto Ferragosto”.
L’articolo del decreto che riguarda la materia dei licenziamenti è il numero 14, la cui nuova disciplina va letta in maniera coordinata con il testo degli articoli 1 e 3, che rispettivamente disciplinano i “Nuovi trattamenti di cassa integrazioneÈ uno strumento previsto dalla legge ed erogato dall’INPS per integrare o sostituire lo stipendio dei lavoratori che hanno subito una riduzione o sospensione dell’attività lavorativa per ragioni legate all’azienda. More ordinaria, assegno ordinario e cassa integrazioni in deroga”, e l’“Esonero dal versamento dei contributi previdenziali per aziende che non richiedono trattamenti di cassa integrazione”.
La disciplina introdotta non è chiarissima, e ne è prova il fatto che circolano diverse letture del testo, con esiti contraddittori.
Certamente il divieto resta:
Al di fuori di questi due casi il divieto viene meno, e quindi si può procedere ai licenziamenti sulla base delle norme generali (con applicazione delle regole ordinarie) se:
Attenzione. Fra le tre ipotesi appena indicate in cui il divieto non vale, quella dubbia è la seconda, perché il testo dell’art. 3 sembrerebbe rendere obbligatorio chiedere l’esonero (v. comma 1, laddove recita «è riconosciuto…»). La nostra interpretazione è di segno diverso, sia perché in questo senso depone il testo del comma 2, sia e soprattutto in forza di una interpretazione costituzionalmente orientata.
Nei fatti, in caso di impugnazione del recesso, potrebbe essere necessaria un’eccezione di incostituzionalità in modo che: o il giudice faccia una interpretazione costituzionalmente orientata o rimetta alla Corte Costituzionale la questione di costituzionalità.
L’art. 14 va interpretato sia letteralmente sia in conformità alle previsioni costituzionali, e in particolare con l’art. 41 della Costituzione.
Sul piano letterale, i commi 1 e 2 dell’art. 14 si riferiscono unicamente ai datori di lavoro che:
La durata del divieto dipende:
Le aziende a cui si applica il divieto possono comunque:
Possono anche concordare con le organizzazioni sindacali incentivi alla risoluzione del rapporto di lavoro, senza aprire procedure di licenziamento collettivoCoinvolge almeno 5 lavoratori nell’arco di 120 giorni come conseguenza della soppressione di un posto di lavoro, per rimodulazione dell’attività aziendale in una stessa provincia. More (in quanto precluso dal comma 1 dell’art. 14). In questo caso, i lavoratori che aderiscono hanno comunque diritto alla NASpILa “Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego” (NASpI) è un’indennità mensile di disoccupazione, istituita in relazione agli eventi di disoccupazione involontaria che si sono verificati dal 1° maggio 2015. More.
Inoltre, a carico delle aziende non è previsto il versamento del doppio del ticket di licenziamento, trattandosi di procedura speciale.
Ci sono poi alcuni casi in cui il divieto non si applica per espressa previsione:
I datori di lavoro che hanno erroneamente proceduto a licenziare nonostante il divieto possono revocare il licenziamento. Ipotesi irreale, che di fatto riguarda solo il caso di errore.
Nonostante ciò la previsione ha profili di inapplicabilità. Basti pensare che la revoca è efficace a condizione che contestualmente si faccia richiesta per il lavoratore licenziato (quindi ad personam, opzione non possibile) della cassa per Covid a partire dalla data in cui ha efficacia il licenziamento. Una data rispetto alla quale potrebbero essere già decorsi i termini di decadenza. Ammesso che ciò si riesca a fare, «in tal caso, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, senza oneri né sanzioni per il datore di lavoro».
Molte voci si sono levate per dire che la nuova disciplina sarebbe incostituzionale per contrarietà all’art. 41 della Costituzione, comprimendo ulteriormente la libertà del datore di lavoro di organizzare i fattori dell’impresa, senza una ragionevole motivazione.
Tra gli interventi più interessanti sull’argomento – sebbene con riferimento alla precedente disciplina e all’ipotesi di proroga della stessa – c’è quello di Riccardo Del Punta, professore ordinario di Diritto del lavoro all’Università di Firenze, che, intervistato da Il Sole 24 Ore, ha affermato quanto segue: «L’incostituzionalità non la vedrei soltanto nella violazione del principio della libertà di iniziativa economica privata, bensì nella sproporzione del contributo di solidarietà sociale che sarebbe richiesto alle imprese».
La disciplina, per come ora è formulata, supera probabilmente i vizi di incostituzionalità se si considera che:
Va poi ricordato – anche se non è un argomento per sostenere la tesi – che, anche nel regime ordinario, chi ha collocato in cassa i dipendenti non può licenziarli per la durata della collocazione in cassa; inoltre quando si avvia una procedura di licenziamento collettivo bisogna spiegare la ragione per cui il ricorso agli ammortizzatori sociali non potrebbe costituire un rimedio alternativo al licenziamento, pena l’illegittimità degli stessi licenziamenti.
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