Divieto di licenziamento: cosa cambia dal 18 agosto per le aziende?

Divieto di licenziamento cosa cambia dal 18 agosto per le aziende

Il “decreto Ferragosto” ha prolungato il termine del divieto di licenziamenti collettivi e individuali per motivi economici, ma con importanti eccezioni

di Gianluca Spolverato


Lo scorso 14 agosto è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il
decreto legge 104/2020, il cosiddetto “decreto Ferragosto”.
L’articolo del decreto che riguarda la materia dei licenziamenti è il numero 14, la cui nuova disciplina va letta in maniera coordinata con il testo degli articoli 1 e 3, che rispettivamente disciplinano i “Nuovi trattamenti di cassa integrazione ordinaria, assegno ordinario e cassa integrazioni in deroga”, e l’“Esonero dal versamento dei contributi previdenziali per aziende che non richiedono trattamenti di cassa integrazione”.
La disciplina introdotta non è chiarissima, e ne è prova il fatto che circolano diverse letture del testo, con esiti contraddittori. 

In quali casi vige ancora il divieto di licenziamento?

Certamente il divieto resta:

  • per le aziende che hanno fruito di periodi di cassa e hanno necessità di utilizzarla ancora, facendo richiesta di cassa per Covid ai sensi dell’art. 1 del nuovo decreto;
  • per le aziende che hanno fruito di periodi di cassa e non hanno più bisogno di interventi di integrazione salariale, ma richiedono l’esonero dai versamenti contributivi ai sensi dell’art. 3 del nuovo decreto.

Chi può licenziare?

Al di fuori di questi due casi il divieto viene meno, e quindi si può procedere ai licenziamenti sulla base delle norme generali (con applicazione delle regole ordinarie) se:

  • un’azienda ha fruito di periodi di cassa e non chiede l’esonero dai versamenti ex art. 3, ma apre una cassa ordinaria o straordinaria ex d.lgs. 148/2015;
  • un’azienda ha fruito di periodi di cassa e non richiede più intervento di integrazione salariale, e allo stesso tempo non richiede l’esonero dai versamenti contributivi ai sensi dell’art. 3 del nuovo decreto;
  • un’azienda non ha mai fruito di periodi di cassa e non richiede (anche perché non si potrebbe) l’esonero contributivo.

Attenzione. Fra le tre ipotesi appena indicate in cui il divieto non vale, quella dubbia è la seconda, perché il testo dell’art. 3 sembrerebbe rendere obbligatorio chiedere l’esonero (v. comma 1, laddove recita «è riconosciuto…»). La nostra interpretazione è di segno diverso, sia perché in questo senso depone il testo del comma 2, sia e soprattutto in forza di una interpretazione costituzionalmente orientata.
Nei fatti, in caso di impugnazione del recesso, potrebbe essere necessaria un’eccezione di incostituzionalità in modo che: o il giudice faccia una interpretazione costituzionalmente orientata o rimetta alla Corte Costituzionale la questione di costituzionalità. 

Dove sta scritto?

L’art. 14 va interpretato sia letteralmente sia in conformità alle previsioni costituzionali, e in particolare con l’art. 41 della Costituzione.

Sul piano letterale, i commi 1 e 2 dell’art. 14 si riferiscono unicamente ai datori di lavoro che:

  • non abbiano integralmente fruito delle ulteriori 18 settimane di cassa previste dall’art. 1 (fruibili tra il 13 luglio e il 31 dicembre 2020),
  • o che non abbiano integralmente fruito dell’esonero dal versamento dei contributi previsto dall’art. 3 (per chi ha usato la cassa a maggio e giugno, e ora non chiede altre settimane di cassa, ma di poter godere dell’agevolazione prevista dall’art. 3 per la durata massima di 4 mesi, fruibili entro il 31 dicembre 2020).

Quanto dura il divieto di licenziamento?

La durata del divieto dipende:

  • da quando un’azienda cesserà di fruire delle ulteriori 18 settimane, decorrenti dal 13 luglio, per chi farà ricorso alla cassa per Covid ai sensi dell’art. 1 del nuovo decreto;
  • da quando cesseranno i mesi di esonero dei versamenti contributivi ai sensi dell’art 3 del nuovo decreto (i mesi sono al massimo 4 e quindi tra il 15 novembre e il 31 dicembre), per chi opterà per l’esonero.
    Ma attenzione, la durata di 4 mesi per l’esonero è una durata massima, e chi ha usato la cassa per poche settimane potrebbe liberarsi dal vincolo del divieto anche prima di novembre, una volta esaurito il montante delle ore che sono soggette a esonero (ad esempio, nel caso in cui un’azienda abbia fruito della cassa solo a maggio e non a giugno, il periodo massimo scadrà a settembre).

Cosa possono fare le aziende sottoposte a divieto?

Le aziende a cui si applica il divieto possono comunque:

  • licenziare per motivi soggettivi (disciplinari);
  • licenziare per superamento del periodo di comporto;
  • licenziare i dirigenti;
  • cessare a scadenza i lavoratori a termine o somministrati a termine;
  • risolvere il rapporto coi lavoratori in prova;
  • cessare i contratti di apprendistato al termine del periodo di formazione;
  • concordare la risoluzione del rapporto in via consensuale.

Possono anche concordare con le organizzazioni sindacali incentivi alla risoluzione del rapporto di lavoro, senza aprire procedure di licenziamento collettivo (in quanto precluso dal comma 1 dell’art. 14). In questo caso, i lavoratori che aderiscono hanno comunque diritto alla NASpI.
Inoltre, a carico delle aziende non è previsto il versamento del doppio del ticket di licenziamento, trattandosi di procedura speciale.

Le eccezioni al divieto

Ci sono poi alcuni casi in cui il divieto non si applica per espressa previsione:

  • nel caso di cambio di appalto e subentro di un nuovo fornitore che assuma tutto il personale precedentemente impiegato, nel rispetto delle previsioni della legge o del contratto collettivo (es. nel settore della logistica, quando a un fornitore ne subentra un altro in forza dell’art. 42 c.c.n.l. logistica);
  • nelle ipotesi di licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività (sempre che nel corso della liquidazione non si configuri la cessione di un complesso di beni o attività che possano configurare un trasferimento d’azienda o di un ramo di essa ai sensi dell’art. 2112 c.c.);
  • nelle ipotesi di licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione.
    Nel caso in cui l’esercizio provvisorio sia disposto per uno specifico ramo dell’azienda, sono esclusi dal divieto i licenziamenti riguardanti i settori non compresi nello stesso.

Se il datore sbaglia, può tornare indietro

I datori di lavoro che hanno erroneamente proceduto a licenziare nonostante il divieto possono revocare il licenziamento. Ipotesi irreale, che di fatto riguarda solo il caso di errore. 

Nonostante ciò la previsione ha profili di inapplicabilità. Basti pensare che la revoca è efficace a condizione che contestualmente si faccia richiesta per il lavoratore licenziato (quindi ad personam, opzione non possibile) della cassa per Covid a partire dalla data in cui ha efficacia il licenziamento. Una data rispetto alla quale potrebbero essere già decorsi i termini di decadenza. Ammesso che ciò si riesca a fare, «in tal caso, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, senza oneri né sanzioni per il datore di lavoro».

La nuova disciplina non è incostituzionale

Molte voci si sono levate per dire che la nuova disciplina sarebbe incostituzionale per contrarietà all’art. 41 della Costituzione, comprimendo ulteriormente la libertà del datore di lavoro di organizzare i fattori dell’impresa, senza una ragionevole motivazione. 

Tra gli interventi più interessanti sull’argomento – sebbene con riferimento alla precedente disciplina e all’ipotesi di proroga della stessa – c’è quello di Riccardo Del Punta, professore ordinario di Diritto del lavoro all’Università di Firenze, che, intervistato da Il Sole 24 Ore, ha affermato quanto segue: «L’incostituzionalità non la vedrei soltanto nella violazione del principio della libertà di iniziativa economica privata, bensì nella sproporzione del contributo di solidarietà sociale che sarebbe richiesto alle imprese».

La disciplina, per come ora è formulata, supera probabilmente i vizi di incostituzionalità se si considera che:

  • il divieto è posto a fronte della concessione di un ulteriore periodo di cassa speciale che non si conteggia ai fini dell’utilizzo degli ammortizzatori ordinari, e non ha i costi degli ammortizzatori ordinari (tale periodo di ulteriore cassa è facoltativo, e se non viene richiesto, il divieto di licenziamento non vige);
  • il divieto è posto a fronte della possibilità di usufruire di incentivi economici significativi, che il datore di lavoro è libero di non chiedere (venendo così meno il divieto);
  • il divieto non ha carattere generalizzato, e le imprese che non chiedono altra cassa e non chiedono l’esonero contributivo sono sciolte dal divieto.

Va poi ricordato – anche se non è un argomento per sostenere la tesi – che, anche nel regime ordinario, chi ha collocato in cassa i dipendenti non può licenziarli per la durata della collocazione in cassa; inoltre quando si avvia una procedura di licenziamento collettivo bisogna spiegare la ragione per cui il ricorso agli ammortizzatori sociali non potrebbe costituire un rimedio alternativo al licenziamento, pena l’illegittimità degli stessi licenziamenti.

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