Denuncia il datore di lavoro per mobbing: ricorso respinto

(foto Shutterstock)

Quali sono gli elementi necessari affinché si possa parlare di comportamento mobbizzante da parte del datore di lavoro

IL FATTO

Un impiegato di banca con la qualifica di vice capo ufficio e mansione di cassiere ha denunciato, presso il Tribunale di Siracusa, il suo datore di lavoro, dichiarando di essere stato per diverso tempo sottoposto a una situazione lavorativa fortemente discriminatoria da parte di dirigenti e colleghi.
In particolare, ha spiegato di essere stato superato da colleghi più giovani, con meno esperienza e meno qualifiche, per ricoprire il ruolo di capo ufficio.
Ha raccontato inoltre di essere stato inviato in missione o trasferimento presso altre filiali senza alcuna ragione di natura organizzativa e di essere stato oggetto di azioni disciplinari rimaste senza conclusione, subendo così un’inutile pressione psicologia.
Secondo il lavoratore questi comportamenti gli hanno provocato una malattia psicofisica con sintomi di ansia, insonnia e depressione.

Il comportamento tenuto dall’azienda può essere considerato mobbing?

MOBBING: COME RICONOSCERLO

Con il termine mobbing si indicano tutti quegli atteggiamenti persecutori che vengono messi in atto sul posto di lavoro da colleghi o superiori nei confronti di un individuo, e che consistono in azioni quotidiane di emarginazione sociale, violenza psicologica o boicottaggio professionale, che possono arrivare fino all’aggressione fisica.

La giurisprudenza ha più volte chiarito che ai fini della riconoscibilità del mobbing lavorativo devono ricorrere alcune situazioni ben definite come:

  • una serie di comportamenti di carattere persecutorio che, con intento vessatorio, siano compiuti contro la vittima in modo continuo e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro, o da un suo preposto, o anche da parte di altri dipendenti sottoposti al potere decisionale dei loro superiori;
  • episodi dannosi per la salute, per la personalità o per la dignità del dipendente;
  • il collegamento tra i comportamenti che caratterizzano il mobbing e il danno subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica o nella propria dignità;
  • la presenza certa dello scopo persecutorio in tutti i comportamenti adottati verso il lavoratore.

LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE

Il lavoratore ha l’obbligo di provare in sede di giudizio gli eventuali comportamenti e violazioni del datore di lavoro che possono provocare una situazione di mobbing lavorativo.
La Corte di Cassazione, in questo caso specifico, ha rigettato il ricorso del lavoratore per la mancanza totale di verifiche alle sue accuse.
Infatti, la mancanza di ragioni organizzative della società che hanno portato ai trasferimenti del dipendente non hanno avuto riscontro. Allo stesso modo non hanno avuto la conferma delle prove né il mancato avanzamento di carriera, né il carattere pretestuoso delle contestazioni disciplinari inflitte.
Le varie contestazioni a cui non sono mai seguite le relative sanzioni e l’accoglimento delle giustificazioni presentate di volta in volta dal dipendente da parte dell’azienda, hanno dimostrato al contrario, l’atteggiamento tollerante sempre avuto da quest’ultima.
Il lavoratore, infine, non ha provato l’esistenza del danno da mobbing e la sua correlazione con la negatività dell’ambiente di lavoro che glielo avrebbe provocato.
Con queste motivazioni la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e condannato il lavoratore al pagamento delle spese processuali (ordinanza n. 32381/2019).

 

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