Suicidi in France Telecom: ex AD e azienda condannati per “mobbing morale”

Nel 2007-2008 la gestione dei vertici aziendali instaurò un clima di ansia e azioni irregolari per incentivare le dimissioni di 22 mila persone, provocando stress tra i dipendenti, fino al suicidio di 19 persone

Fino a che punto può arrivare la pressione psicologica sui dipendenti da parte di un datore di lavoro?
Quanto dirigenti, manager e imprenditori, qualora agiscano perseguendo esclusivamente logiche commerciali, possono considerarsi al di sopra della legge e del rispetto della dignità dei collaboratori? E che livelli può toccare il malessere di questi ultimi?

La vicenda France Télécom, impresa di telecomunicazioni francese, diventata Orange dal 2013, risponde con i fatti a molte di queste domande, e rappresenta il primo caso emblematico destinato a fare storia, in cui la gravità delle cosiddette “molestie morali” viene a galla in maniera drammatica nel contesto di una grande azienda, ed è inoltre riconosciuta e punita dalla legge anche senza la presenza di un legame interpersonale diretto tra autori e vittime.

LE CONDANNE

Lo scorso luglio infatti il tribunale di Parigi ha condannato per mobbing morale i responsabili dei fatti che più di 10 anni fa, tra il 2007 e il 2008, crearono le condizioni di disagio che portarono al suicidio ben 19 dipendenti (su 39 casi analizzati, tra cui 12 casi di tentato suicidio, 8 casi di depressione o interruzione di lavoro per motivi legati a pratiche illecite), molti dei quali avevano lasciato dei messaggi accusatori contro l’azienda. 

I soggetti coinvolti vennero accusati di aver messo in atto politiche di riduzione «a oltranza» del personale, trasformando il mobbing in una pratica imprenditoriale sistematica, anche attraverso trasferimenti continui, cambi di mansione, condizioni e luoghi di lavoro disagevoli, e tecniche di persuasione di vario genere.

L’ex presidente e direttore generale Didier Lombard, il suo braccio destro Louis-Pierre Wenès, e l’ex direttore HR Olivier Barberot sono stati condannati a un anno di carcere (di cui 8 mesi coperti dalla condizionale) e al pagamento di una multa di 15 mila euro. La pena massima prevista in Francia per questo tipo di reato.
Oltre a loro, altri quattro dirigenti sono stati condannati per complicità.
L’azienda invece dovrà corrispondere una multa di 75 mila euro e versare 2 milioni di risarcimenti verso la parte civile nel processo.

LA STORIA

Dalla metà del 2000 France Télécom aveva avviato una ristrutturazione da portare a termine in circa tre anni, anche per sanare l’elevato indebitamento conseguente alla perdita di posizioni sul mercato, dopo essere stata scalzata dai competitor.
Tale ristrutturazione, che si traduceva nella messa in pratica dei piani ‘Next’ e ‘Act’, prevedeva il taglio di un quinto del personale, ovvero di oltre 22 mila posti di lavoro su 120 mila dipendenti, e 10 mila trasferimenti.

A mettere i bastoni tra le ruote alla politica di tagli era subentrato il fatto che, nonostante il gruppo fosse stato privatizzato, i lavoratori non avevano perso lo status di dipendenti pubblici, e ciò non permetteva il licenziamento delle forze in esubero. Per questo motivo venne deciso che la cesoia sui posti di lavoro dovesse avvenire attraverso le dimissioni volontarie dei dipendenti.

LE DICHIARAZIONI DEL TRIBUNALE DI PARIGI

Secondo la presidente del tribunale di Parigi, Cécile Louis-Loyant, l’azienda ha attuato «un piano concertato per peggiorare le condizioni di lavoro dei dipendenti, in modo da accelerare le loro uscite», creando un «clima di ansia».
Attraverso strumenti «vietati», i vertici avrebbero fatto «pressione sulla direzione», e a cascata fino ai dipendenti, attuando così una riduzione del personale «a marce forzate».
Una politica all’interno della quale i tre dirigenti, che durante il processo hanno sostenuto la volontarietà delle dimissioni, «non potevano ignorare la fragilità latente del personale».

IL COMMENTO DELLO PSICHIATRA

Christophe Dejours, psichiatra e coautore del libro “Suicide et travail, que faire?”, sentito durante il processo, ha commentato: «Non sono i pigri o i fannulloni che si uccidono sul lavoro. Sono quelli che si impegnano e crollano quando quel lavoro, il centro della loro vita, diventa la fonte della loro sofferenza. Il suicidio sul lavoro è la punta dell’iceberg. È un indicatore della distruzione del mondo sociale. Non è una fatalità perché l’organizzazione del lavoro è fatta da decisioni umane».

 

 

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