LinkedIn, sai usarlo bene?

(In foto il digital strategist Giulio Xhaet)

I consigli del digital strategist Giulio Xhaet per sfruttare al meglio la piattaforma

Con i suoi 13 milioni di utenti solo in Italia, LinkedIn è uno dei social media più utilizzati in assoluto. Sbarcato nel mondo del web nel 2002, prima di Facebook, è ormai un punto di riferimento per lavoratori, startupper, professionisti, imprenditori ed anche addetti alle risorse umane. Ma usarlo bene può non essere così semplice: è uno strumento con molte potenzialità, che tuttavia bisogna saper cogliere. Come? Lo abbiamo chiesto a Giulio Xhaet, digital strategist e autore di diversi saggi sul mondo digital. L’ultimo, “#Contaminati, l’ha pubblicato quest’anno con Hoepli. 

Cosa posso ottenere da LinkedIn?

«Dipende da chi sei, dalle tue esigenze ed anche dai tuoi obiettivi. E qui c’è una doverosa premessa: LinkedIn non è solo uno strumento per cercare e trovare lavoro. Oggi lo è diventato per la maggior parte delle persone che lo popolano ma alla nascita, nel 2002, si poneva l’obiettivo di mettere in contatto imprenditori, innovatori e investitori. La sfida era quella di creare uno strumento in grado di far crescere relazioni e, quindi, partnership». 

«Alla base di questo ragionamento c’è una teoria sociologica: quella dei legami deboli. Sono i legami tra persone che si conoscono poco. Immaginiamo due professionisti che si incontrano ad un evento. È una relazione che pur esistendo impatta poco sulla nostra quotidianità, diversamente dal rapporto con un fidanzato o un collega. Ma i legami deboli hanno un superpotere: proprio perché abbiamo network separati, allora siamo un forziere di opportunità l’uno per l’altro. LinkedIn nasce con questo scopo: ognuno di noi conosce tantissime persone che possono essere utili legami deboli. In più per i professionisti è una vetrina per farsi notare e può aprire molte porte. Anche dal punto di vista aziendale è una miniera di talenti, che grazie a LinkedIn si possono individuare come con nessun tradizionale canale di recruiting».

È utile anche per trovare clienti?

«Certo. Quando ho lanciato la mia startup, “Made in Digital”, l’80% dei clienti lo trovavo grazie a LinkedIn. L’importante è adottare un approccio non da venditore. Fare richieste a pioggia ad un sacco di potenziali clienti, e poi proporre il tuo prodotto appena ti accettano, non è un buon metodo. La modalità, sia che cerchiamo lavoro, clienti o opportunità è mettere in vista cosa possiamo offrire, senza chiedere subito. Vedo dal profilo che una persona si occupa di un certo argomento, le scrivo “guarda mi è venuta in mente un’idea, potrei fare qualche cosa per te, esserti d’aiuto”. Il networker non deve avere l’approccio da taker, ma da giver. Il taker è quello che propone subito un prodotto da acquistare, il giver mette in campo le sue energie per te, perché tu sei interessante anche solo per instaurare una relazione e creare fiducia».

Da dove iniziare per valorizzare al meglio la mia pagina?

«Ottimizzando il tuo profilo. La prima cosa è compilarlo tanto e bene. Fondamentale è usare le giuste parole chiave: immaginiamo due o tre concetti ai quali legare le nostre competenze, quelli per cui si vuole essere trovati facilmente. Nel mio caso sono: digital strategy, digital skill, interdisciplinarietà e social media. All’interno del profilo le scrivo e le ripeto più volte tra le diverse sezioni, non solo perché così sono più visibili ma anche perché a livello di algoritmo LinkedIn alza il tuo livello di findability. Ovvero, se cerchi digital strategy tra tutti i profili di LinkedIn il mio sarà tra i primi, perché ho allenato l’algoritmo a capire che sono bravo in quello». 

«Un’altra cosa buona da fare è la conferma delle competenze. Che sembra un po’ una banalità, un grande mercato di scambio dove io ti confermo se tu mi confermi a tua volta. Ma in realtà è molto importante, sempre per lo stesso motivo: se la mia competenza, ad esempio digital strategy, è confermata da 20, 50, 100 persone, l’algoritmo alza ulteriormente il mio livello di findability». 

Passioni e soft skill contano? Come comunicarle?

«Comunicare bene anche le passioni, le competenze trasversali e le esperienze extralavorative non è un dettaglio, è fondamentale. In passato si guardava quasi esclusivamente al curriculum professionale, tutto il resto era hobby e sport. Oggi invece questi elementi sono stati ampiamente rivalutati, e a giudizio mio – ma anche di molti altri – sono uno degli elementi più preziosi e peculiari che puoi mettere nel cv. 

Per tre motivi: 

  1. descrivono soft skill senza usare sempre le stesse parole. Come dicono gli scrittori, “show, don’t tell”. Sono un runner? Scrivo che la mia passione per la corsa mi ha portato a sfidare me stesso fino a completare la prima maratona. Sto descrivendo chi sono senza usare sempre le stesse parole vuote, propensione all’obiettivo, capacità di problem solving ecc. 
  2. Sono memorabili, si ricordano. Se hai dieci cv tutti uguali, quello di un informatico che la sera fa il dj in discoteca te lo ricordi. Anche perché gli hr passano l’80% del tempo a leggere la parte sulle tue passioni e solo il 20% a leggere le esperienze lavorative.
  3. Le nostre passioni ci conoscono meglio di quanto noi conosciamo noi stessi, e dimenticarle è un buon modo per lastricare la nostra infelicità futura».

«Facciamo un esempio, torniamo all’informatico che la sera fa il dj. Deve scriverlo? Un tempo tutti avrebbero detto di no, che può dare l’impressione di una persona poco seria. Invece è un dettaglio fondamentale. Lo stereotipo dell’informatico è quello di una persona con competenze verticali molto solide, ma scarse capacità relazionali. Il fatto che lavori in discoteca, al contrario, mi fa pensare ad una persona più estroversa, abituata al contatto umano. Le nostre passioni ci completano a tutto tondo: mettiamo che il nostro informatico non lo scriva, per timore di apparire poco serio. Potrebbe trovarsi assunto in un’azienda che è molto rigida, seriosa e non sa valorizzare alcuni aspetti della sua professionalità. Questa è la base per il classico colpo di testa che ti porta a buttar via due anni di percorso per cercare un altro lavoro».

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