Tra 10 anni le donne con il bisturi saranno più del 50%, ma la strada è ancora lunga per rendere il percorso di carriera di questa professione “da uomini” davvero accessibile alle donne. Ne abbiamo parlato con Gaya Spolverato, Chirurga oncologica, Presidentessa e Co-fondatrice di Women In Surgery Italia
Aumentano le donne iscritte a medicina, quasi il 60% del totale. Tra queste ci sono anche quelle che prendono la strada della chirurgia, una disciplina più ostica rispetto ad altre – per curva di apprendimento, gestione dei tempi formativi e di lavoro che richiede molti sacrifici, ancor più per chi vuole avere dei figli –, e tradizionalmente ritenuta di appannaggio maschile, “una cosa da uomini”, a causa di radicate false convinzioni.
Le statistiche dicono che tra 10 anni oltre la metà dei chirurghi sarà donna; per questo le strutture ospedaliere devono attrezzarsi per garantire alle donne la possibilità di lavorare in sala operatoria senza essere poste davanti a una scelta. Quella di essere chirurgo oppure donna, optando per strade di carriera alternative che permettono di conciliare meglio l’equilibrio vita-lavoro, come accade oggi.
Abbiamo chiesto a Gaya Spolverato, 35 anni – Medica specialista in Chirurgia oncologica presso l’Azienda Ospedaliera di Padova, Presidentessa e Co-fondatrice di Women in Surgery Italia – di raccontarci qual è oggi in Italia la situazione delle donne col bisturi, quali le difficoltà di carriera, di gestione dell’equilibrio vita-lavoro, soprattutto per le madri lavoratrici come lei stessa, mamma di un bambino di un anno. E ancora, qual è l’impegno dell’associazione che guida.
La dottoressa, dopo la laurea in Medicina e Chirurgia a Padova, ha intrapreso un percorso di specializzazione e ricerca all’Università di Padova, di Verona e alla Johns Hopkins University di Baltimora negli USA; seguito da un’ulteriore specializzazione in chirurgia oncologica presso il Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York. Dal 2018 è rientrata in Italia dove lavora come chirurga nella Clinica chirurgica dell’Azienda ospedaliera di Padova. Nel 2015 ha fondato insieme alla dottoressa Isabella Frigerio, l’associazione Women in Surgery Italia, di cui è presidente, che mira a rappresentare le donne chirurgo e a promuovere un ambiente di lavoro inclusivo per la figura femminile nelle professioni chirurgiche.
«Ma tu saresti in grado di fare questo intervento?». Nonostante un curriculum di tutto rispetto e oltre un migliaio di interventi chirurgici eseguiti, lei, come molte altre colleghe, oggi si sente ancora porre domande di questo genere dai pazienti, per il solo fatto di essere una giovane donna.
«La situazione è sbilanciata al femminile in tutti i settori sanitari, ad eccezione della chirurgia che rimane un ambito prettamente maschile. Negli anni il numero delle donne con ruoli di dirigente medico, quindi di medici professionisti in strutture ospedaliere, è aumentato progressivamente; da sempre però si vede un trend al femminile caratteristico di alcune professioni, penso alla ginecologia, alla pediatria, alla medicina interna.
Rimane più tabù la professione chirurgica proprio perché porta con sé delle difficoltà intrinseche legate prevalentemente alla gestione dei tempi e a una curva di apprendimento che richiede estremi sacrifici in età fertile, tra i 30 e i 40 anni, in cui molte donne decidono di fare altro proprio per permettersi di avere una famiglia.
Le tendenze vedono un progressivo cambiamento negli anni: si parte dagli iscritti a medicina, con un aumento che ormai si avvicina quasi al 60% di donne, e poi si rispecchia nelle specialità che queste figure scelgono, per arrivare a specialità in cui c’è un 70% di donne come la ginecologia, ad altre in cui invece c’è un 70% di uomini, come l’ortopedia.
La situazione è estremamente varia, certa è però la presenza di un trend in aumento delle donne in tutte le professioni, anche in quelle chirurgiche, perché aumentano le donne iscritte a medicina.
Oggi nella scelta della carriera si opta per alternative che concedano un po’ più stabilità familiare, nel caso delle donne, e un pochino di meno quei posti in cui non c’è garanzia di futuro immediata, scelti invece dagli uomini.
Al di là di questo, le donne chirurghe che operano effettivamente in sala operatoria sono poche, perché nella carriera si può scegliere di ricoprire ruoli più amministrativi e ambulatoriali.
Per quanto riguarda poi la curva, la differenza diventa sostanziale quando si tratta di ruoli dirigenziali: si parla del 5% di donne contro il 95% di uomini – nelle situazioni più rosee – per arrivare al massimo grado della realtà universitaria, quindi dei professori ordinari, dove nelle professioni chirurgiche in questo momento non c’è nessuna ordinaria donna di chirurgia in Italia in attivo.
«Quanto alle attività di sala operatoria, nonostante alcuni turni siano stati garantiti e altri no, è stato ridotto il numero di sale operatorie e di conseguenza anche le chance di operare alcuni pazienti oncologici.
Per noi chirurghi invece si è trattato semplicemente di una redistribuzione dei tempi e degli spazi. Molti e molte di noi sono stati costretti a rivestire ruoli che non erano quelli ricoperti nell’era pre-Covid, quindi c’è stato un rimaneggiamento totale della professione anche a scapito di un equilibrio vita-lavoro. Senza considerare il fatto, ormai arcinoto, che molti di noi, spostati a ricoprire posizioni in reparti Covid, sono stati costretti a vivere lontano dai figli, e questo ha reso molto più difficile la gestione delle famiglie, parlo a livello più ampio anche di operatrici, infermiere, medici donne, con una ricaduta sulla società a 360 gradi, sui figli e su chi rimaneva a casa.
Le donne inoltre, come è noto, fanno anche il cosiddetto “lavoro non pagato”, occulto, curandosi di figli, parenti anziani, disabili, un impegno che nel periodo Covid è aumentato, essendo a sua volta aumentato il numero di persone a casa e ammalate.
In definitiva la vita delle donne nelle professioni sanitarie non si è stravolta durante l’emergenza Covid rispetto a quella degli uomini, ma ha subito le aggravanti del lavoro occulto, con la gestione della famiglia e dei figli che è andata ad aggiungersi al lavoro in ospedale».
«La cosa più immediata sarebbe creare degli asili nido intraospedalieri che permetterebbero a chi ha bambini fino ai 3 anni di avere i figli vicino. Questo garantirebbe una maggior presenza sul posto di lavoro e una possibilità di vedere i figli possibilmente nelle pause. La presenza di nidi intraospedalieri aiuterebbe chi lavora in ospedale anche per una questione di orari, legata ai turni ospedalieri, che iniziano alle 7 di mattina, e non si conciliano con quelli dei nidi tradizionali.
Un altro aspetto da supportare è la sostituzione di maternità anche in chirurgia, naturale nelle aziende private ma inesistente in questo contesto, nel quale i colleghi vanno a ricoprire il ruolo della persona mancante, cosicché spesso viene a crearsi un circolo vizioso di asti, fastidi e difficoltà legate al fatto che la donna se n’è andata, colpevole di non essere presente durante la maternità. La sostituzione è fondamentale e deve essere garantita per sollevare le altre persone del peso della persona che non c’è, e anche per favorire i più giovani che vogliono approcciarsi al mondo del lavoro.
A livello più generale l’equilibrio vita-lavoro andrebbe supportato chiarendo i ruoli, potendo contare su una maggiore organizzazione della settimana lavorativa, avendo audit interni, cercando di capire quanto il work life balance è veramente rispettato, quanto sia ingiusto che una persona debba rimanere sul lavoro anche dopo il turno di notte perché fa la chirurga, come fosse una prova di endurance, dovuta più a retaggi antichi che hanno poco a che fare con la qualità del lavoro e ostacolano l’equilibrio con la vita privata.
Oggi nessuno fa presente queste problematiche, pena il malessere nel posto di lavoro. Per il futuro si devono prendere in considerazione anche tutti questi aspetti per evitare la perdita di motivazione da parte delle donne a portare avanti un percorso di carriera in chirurgia».
«Women In Surgery nasce da un’idea mia e della dottoressa Isabella Frigerio, inserendosi in una realtà che vedeva delle chirurghe “eccezionali”, non solo per il loro lavoro ma anche perché rappresentavano un’eccezione rispetto alla normalità. Nel 2015, ma probabilmente ancora adesso, le chirurghe venivano ancora considerate delle eccezioni.
L’associazione nasce da un cambiamento che coinvolge la professione chirurgica e chi la pratica. Fino a qualche anno fa il mestiere di chirurgo era “una cosa da uomini”, tuttavia ad oggi il numero di donne chirurghe, o in formazione, è in crescita. E tra 10 anni oltre la metà dei chirurghi attivi sarà di sesso femminile. Dobbiamo “prepararci”. Per questo è necessario che anche le strutture ospedaliere si attrezzino per garantire alle donne chirurghe la possibilità di lavorare senza dover scegliere fra essere chirurga o donna, o che un primario possa investire su un promettente chirurgo indipendentemente dal suo genere.
Gli obiettivi principali di WIS sono legati prevalentemente al role modelling, alla mentorship, cioè a creare un modello virtuoso in cui le chirurghe, anche più giovani, possano trovare delle figure di riferimento più anziane tramite dei contatti interni all’associazione, che possano permettere loro di avere ad esempio la possibilità di fare un observership, di avere una fellowship o di trovare la figura di un mentore all’interno dell’associazione stessa, o anche al di fuori, in base alle necessità.
Abbiamo regalato delle borse di studio a persone che hanno realizzato progetti edificanti sulla donna in chirurgia, abbiamo dato la possibilità alle chirurghe di riportarci situazioni di disagio per avere un occhio sul panorama nazionale e far sapere alle donne che c’è qualcuno pronto ad aiutarle.
Non siamo politicizzate. Siamo totalmente presenti nella realtà anche a livello microscopico, siamo sparse in tutta Italia e nelle isole, pertanto abbiamo una realtà abbastanza rappresentativa che ci permette di individuare situazioni di disagio. Il nostro è un organo di rappresentanza ma anche di comprensione della realtà delle chirurghe italiane.
Quello che ci manca è il supporto di grosse società e di case farmaceutiche, che ci permetterebbe di avere un pochino meno grip quando si organizzano eventi, perché noi siamo una società a zero budget».
«Noi chirurghe diciamo sempre che dovremmo scrivere un libercolo che raccolga tutte le cose che ci sono state dette negli anni da pazienti e colleghi. Io, ad esempio, essendo bionda, fino a qualche anno fa incarnavo il prototipo della “bionda idiota”, e quando ero studentessa non godevo di grossa considerazione soltanto per questa ragione.
Recentemente un paziente tra i 60 e i 70 anni, che doveva subire un intervento estremamente complesso di chirurgia oncologica, mi ha chiesto, dandomi del tu, al di là di ogni regola di educazione: “Ma tu scusa saresti in grado di fare un intervento del genere? Ma ne sei capace?”. È stato un episodio umiliante e triste, per cui sono stata io stessa a dire al paziente di non farsi operare da me se aveva questo dubbio, perché non ero io a doverlo convincere, e l’ho indirizzato altrove, non essendo presente la fiducia tra chirurgo e paziente.
In passato invece una domanda che i pazienti mi facevano spesso era: “Quando arriva il dottore?”. Oppure, se andavo a colloquio con un paziente insieme a uno specializzando, i pazienti si rivolgevano sempre a lui, in quanto maschio, come se lui fosse lo strutturato e io l’assistente.
Quando sei giovane e devi ancora affermarti questi episodi sono all’ordine del giorno, anche se in realtà accadono anche a chirurghe più anziane di me. Rimane la tendenza a sminuire le persone di sesso femminile. Le donne devono dare continuamente prova di sé, mostrare ogni giorno quanto valgono, e che valgono più degli altri».