L’attenzione è più diffusa tra le aziende di grandi dimensioni (+500 dipendenti) localizzate nel centro-nord. E 5 su 100 sono attive specificamente sul fronte Lgbt
Nel 2019 il 20,7% delle aziende ha adottato almeno una misura non obbligatoria per legge con l’obiettivo di gestire e valorizzare le diversità tra i lavoratori legate a genere, età, etnia, convinzioni religiose o disabilità. E il 5% ha adottato misure specifiche per i lavoratori Lgbt. È quanto emerge dal report di Istat e UNAR, che hanno indagato le misure di diversity management nelle aziende italiane, con un focus sulla diversità Lgbt.
L’indagine rileva come l’applicazione di misure volte al diversity management – ovvero l’insieme delle azioni per promuovere l’inclusione negli ambienti di lavoro – sia più presente nelle imprese di grandi dimensioni (oltre 500 dipendenti). Tra queste ultime, infatti, il 34% ha adottato almeno una misura non obbligatoria per legge, a fronte del 19,8% delle imprese più piccole (50-499 dipendenti).
A rivelare delle tendenze generali non c’è solo la grandezza dell’impresa, ma anche l’”anzianità”: nel complesso, oltre un quarto delle società mediane (tra 12 e 31 anni) adotta misure di diversity management in almeno uno degli ambiti considerati (genere, età, etnia, religione, disabilità). Più ridotte le quote riferite alle imprese più giovani (0-11 anni, 15%) e a quelle più anziane (32 anni e oltre, 18%). Dal punto di vista territoriale, il diversity management è più diffuso al nord, dove il 37,8% delle grandi aziende adotta almeno una misura. Seguono le imprese del centro (29,3%) e del Mezzogiorno (20,2%).
La legge 76/2016 (c.d. legge Cirinnà) ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto dell’unione civile, prevedendo il riconoscimento giuridico della coppia formata da persone dello stesso sesso con riflessi anche nella sfera lavorativa. Tutte le imprese sono state chiamate, quindi, a recepire le disposizioni contenute nella legge. Ma non tutte si sono ancora trovate nelle concrete condizioni di applicarle. Le richieste sono state più numerose tra le imprese di grandi dimensioni, interessando circa una società su tre, contro il 6% delle imprese con 50-499 dipendenti. Il 43,5% di queste aziende dichiara di aver concesso il congedo matrimoniale a seguito dell’unione civileCoppia formata da soggetti, entrambi maggiorenni, dello stesso sesso, e riconosciuta da un punto di vista giuridico More: il 37,1% ha gestito una sola richiesta, il 6,4% più di una richiesta. Tra le imprese più grandi le richieste multiple hanno riguardato il 18,9%. Solamente il 22,2% delle imprese con almeno 50 dipendenti ha dichiarato di non aver ricevuto richieste di congedo matrimoniale per l’unione civile.
Al 2019, il 5,1% delle imprese con almeno 50 dipendenti (pari a oltre mille imprese) ha adottato almeno una misura ulteriore rispetto a quanto già stabilito per legge. Tra queste misure si ricordano: eventi formativi rivolti al top management e ai lavoratori sui temi legati alle diversità Lgbt; iniziative di promozione della cultura inclusiva e valorizzazione delle diversità Lgbt; misure ad hoc per i lavoratori transgender; permessi, benefit e altre misure specifiche per i lavoratori Lgbt. La quota di imprese cresce all’aumentare della loro dimensione: dal 4,4% nel caso di 50-499 dipendenti al 14,6% per le imprese di dimensioni maggiori.
Le misure maggiormente adottate sono quelle destinate ai lavoratori transgender: per loro, il 3,3% delle imprese ha previsto la possibilità per questi lavoratori di usare servizi igienici, spogliatoi, ecc. in modo coerente con la propria identità di genere.