Se ne parla da sempre: alcune aziende l’hanno testata con successo, ed ora l’ipotesi è allo studio dei governi di Spagna e Germania
L’eterno ritorno di alcuni temi ci ripresenta, in queste settimane, la discussione sulla settimana lavorativa di quattro giorni. Una proposta affrontata ripetutamente nel tempo, rilanciata di volta in volta da singole aziende o addirittura dai governi. Rivedere le modalità e i tempi di lavoro, del resto, è un’esigenza imposta da un cambiamento già in atto da anni, che ha profondamente modificato la natura stessa del lavoro. La pandemia e la diffusione globale dello smart working hanno dato un’ulteriore spinta propulsiva. Vediamo gli esperimenti già testati e le ipotesi in campo.
In assoluto, e in Italia in particolare, le ore di lavoro settimanali sono molte ma non portano ad un reale aumento della produttività. Nel mondo, infatti, oltre un terzo dei lavoratori (31,6%) dedica al proprio impiego più di 48 ore settimanali, mentre la crescita degli stipendi è diminuita (i dati sono contenuti in uno studio del 2018 dell’ILO, l’organizzazione internazionale del lavoro delle Nazioni Unite).
Nella zona euro, in particolare, l’Italia è il paese dove si lavorano in media più ore alla settimana, dopo Grecia ed Estonia. Nel 2019 l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ha calcolato che in Italia le ore lavorative sono in media 33 a settimana, 3 in più rispetto alla media europea. In Germania le ore settimanali medie sono 26, nei Paesi Bassi sono 28, in Lussemburgo, Austria e Francia sono 29. In Belgio e Finlandia sono 30. Una fatica che non corrisponde, però, a una conseguente crescita dei livelli di produttività, e nemmeno a stipendi più alti.
Vedendo i dati non è difficile immaginare i motivi che, nel tempo, hanno spinto alcune aziende a sperimentare una settimana più “concentrata”. Ci aveva provato Microsoft, testando la soluzione per circa un mese, nel 2019, su 2300 dipendenti della sede di Tokyo. I risultati erano buoni: la produttività era aumentata del 39,9% rispetto al mese precedente, e i consumi per l’energia elettrica scesi del 23%. I benefici, inoltre, erano risultati evidenti anche sul fronte del work life balance e del benessere aziendale. Lo scorso inverno doveva scattare un secondo esperimento, poi interrotto dall’emergenza Covid che aveva imposto altri ragionamenti: lo scorso ottobre, infatti, l’azienda aveva annunciato di passare a forme permanenti di smart workingÈ una nuova modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, introdotta dalla l. 81/2017 e caratterizzata dall’assenza di precisi vincoli di orario e di luogo di lavoro per il dipendente. More.
Più di recente Unilever, colosso dei beni di consumo, ci ha riprovato in Nuova Zelanda: per tutto quest’anno i suoi dipendenti lavoreranno 4 giorni a settimana, a stipendio pieno. E i risultati detteranno la linea per le scelte future.
Di rivedere l’orario lavorativo si è spesso parlato anche a livello governativo. In Francia, già alla fine degli anni ‘90, il dibattito aveva portato alla riduzione del “tempo pieno” da 40 a 35 ore settimanali. Ma anche la proposta di ridurre la settimana lavorativa, in Europa, è stata più volte presa in considerazione, tornando alla ribalta nei mesi scorsi. In un periodo di forte crisi, si è detto da più parti, ridurre l’orario permetterebbe di creare nuovi posti di lavoro. In più, avere più tempo libero incoraggerebbe i cittadini a spendere in vacanze e tempo libero. Attualmente l’ipotesi è allo studio del governo Spagnolo e se ne discute anche in Germania, che a settembre eleggerà il nuovo capo di stato, e la questione potrebbe diventare un tema elettorale. Sfuma, invece, l’ipotesi finlandese: dopo il gran parlare di dicembre, infatti, la premier Sanna Marin ha smentito, almeno per il momento, le voci che si erano diffuse.
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