Siamo sicuri che da soli possiamo farcela?

Siamo sicuri che da soli possiamo farcela?
(foto Shutterstock)

La mancanza di personale che molti settori lamentano, unita al declino demografico, evidenzia l’urgenza di alcuni interventi, anche sul fronte dell’immigrazione regolare

di Gianluca Spolverato e Paola Salazar

Guardando agli ultimi dati sulla mancanza di personale, verrebbe da osservare che sia tutto dipendente da fattori esterni, quali la situazione di crisi che stiamo vivendo, accompagnata dalle difficoltà strutturali di certi settori (come ristorazione, industria manifatturiera, agricoltura) particolarmente colpiti dai due anni di blocco e dall’incertezza derivante dalla crisi energetica. In realtà non è proprio così.

Cosa c’è dietro la mancanza di personale

È necessario analizzare meglio i dati per scoprire che la mancanza di personale non è che la punta dell’iceberg.

Non è tanto la mancanza di personale in sé a preoccupare, quanto piuttosto la valutazione di una serie di fattori che fanno da sfondo a un problema che nel mercato del lavoro interno esiste ormai da parecchi anni.

 Più volte ci siamo soffermati sul tema della formazione e delle competenze (Ichino). La carenza di personale (skill shortage) dipende sicuramente e in parte dalle difficoltà strutturali del sistema di formazione professionale che non pare in grado di assicurare una effettiva transizione scuola-lavoro (ma anche università-lavoro), anche se qualche speranza la si può riporre nella recente riforma degli Istituti tecnici superiori.

Il sistema delle Politiche Attive, poi, non sembra poter garantire l’aggiornamento e la riqualificazione professionale dei più anziani, al fine di assicurare loro una effettiva ri-occupazione.

Ma altri fattori intervengono pesantemente in questo scenario. Si tratta di fattori demografici che insistono ai due estremi di questo scenario, sugli anziani e sui giovani. 

Crescono gli anziani

Se si guardano i dati sulla composizione della popolazione in base alle tendenze demografiche dei prossimi anni, si può vedere che il rapporto tra individui in età lavorativa (che non vuol dire che lavorano, ma che potrebbero lavorare) e chi non lavora sarà presto di 1 a 1.

Vuol dire che, prima di quanto pensiamo, le persone che non lavorano saranno almeno pari a quelle che potrebbero lavorare.

Non solo, anche l’età media della popolazione è in rialzo: 46,2 anni al 1° gennaio 2022. La speranza di vita al momento della nascita è di 82,4 anni e, nel 2021, è cresciuta di 3 mesi rispetto al 2020.

 Se a questo si aggiungono le previsioni demografiche diffuse dall’ISTAT già a fine 2021, si può vedere che la popolazione di 65 anni è già il 23,2% del totale.

Negli anni ’70 era sette milioni sul totale della popolazione (all’epoca pari a circa 54 milioni), oggi è di quattordici milioni (con un totale della popolazione poco sotto la soglia dei 59 milioni). La stima sale a diciannove milioni nel 2050 (Rosina).

Diminuiscono i giovani

Non solo, la popolazione fino a 14 anni di età è il 13%, quella nella fascia 15-64 anni il 63,8%. 

Cosa significa? Che l’Italia è non solo un paese che invecchia ma è anche un paese che non fa più figli ed è pertanto afflitto già da un cronico calo demografico sul quale è necessario intervenire al più presto se si vuole invertire per tempo la rotta.

Il numero medio di figli per donna è infatti di 1,23 (era 1,24 nel 2020). Ogni 7 nati ci sono 12 decessi per mille abitanti. Nel 2022 sono stati registrati oltre 20 mila centenari (dato quadruplicato dai 5 mila del 2002).

Anche in questo caso, il numero dei giovani (under 35 anni) presenti in Italia negli anni ’70 era di circa trenta milioni, oggi sono meno di venti milioni e nel 2050 si stima che saranno circa 16 milioni (Rosina).

L’Italia non è un paese per giovani

L’ultimo Rapporto della Banca d’Italia segnala che il contributo demografico all’offerta di lavoro è negativo non da poco tempo ma già dal 2012 e, come appena visto, si accentuerà ulteriormente in futuro, con conseguenze significative per il potenziale di crescita dell’economia dell’Italia.

Non solo, i giovani – e non solo quelli con scolarità elevata – sono sempre più indotti a lasciare l’Italia, mentre l’ultimo rapporto Excelsior-Unioncamere segnala che le difficoltà burocratiche della Legge Bossi Fini (Testo Unico dell’Immigrazione) rendono difficoltoso l’ingresso e l’inserimento al lavoro degli stranieri, con la conseguenza che spesso per far fronte alle necessità dei settori più richiesti – lavoro domestico, manifatturiero, ristorazione, agricoltura, edilizia – gli stranieri si trovano invischiati nelle maglie del caporalato. 

Cosa ci dicono quindi questi numeri e quali le soluzioni?

  1. che l’Italia è un Paese che sta invecchiando;
  2. che questo processo continuerà inesorabilmente, senza un forte impegno da parte dello Stato al sostegno dei giovani e della genitorialità. Alcune regioni come il TrentinoAlto Adige sono già state in grado di invertire la tendenza con proiezioni che stimano di riportare il numero medio di figli per donna a 1,45 nel 2040 e, nella migliore delle ipotesi a 1,71 (Sole24ore 21 ottobre 2022);
  3. che avremo sempre più bisogno di stranieri e in tutti i settori, al di là di quella che viene definita da qualcuno la specializzazione etnica;
  4. che il sistema previdenziale in ragione del progressivo aumento della speranza di vita dovrà sostenere un peso sempre maggiore.

Nel giro di pochi anni, se non saremo in grado di arrestare la tendenza dei giovani a lasciare l’Italia perché sfiduciati dalla mancanza di prospettive non solo lavorative ma anche sociali sul fronte della possibilità di costruirsi presto una famiglia, se non si adotteranno serie politiche di welfare a sostegno della genitorialità e delle attività di cura e di assistenza agli anziani ma, soprattutto, senza significative immissioni anche incentivate di manodopera regolare dall’estero (con una previsione di revisione del TU immigrazione), si rischierà il declino.

 

 

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