Professione “conversation designer”: «Insegno ai bot il linguaggio umano»

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(Foto: Shutterstock)

Mary Tomasso addestra l’intelligenza artificiale a parlare in modo “più umano”. In Italia è una pioniera, ma all’estero la professione è già affermata

Che l’intelligenza artificiale vada “addestrata” è cosa ormai risaputa, ma chi si occupa della “formazione” di robot e software? Non solo ingegneri ed informatici ma anche, fra i tanti, esperti di interpretariato e di linguistica. Ne parliamo con Mary Tomasso, che di professione addestra l’ai a parlare in modo “più umano”

Partiamo dalle definizioni, chi è il “conversation designer”?

«Come per tutte le professioni nuove, non esistono definizione univoche. Tra le tante che potremmo citare, una delle più autorevoli è certamente quella del Conversation Design Institute, rinomata organizzazione impegnata nella standardizzazione del conversation design. Secondo la loro definizione, “il conversation design è la pratica di rendere gli assistenti AI più utili e naturali nella loro interazione con gli esseri umani. È una disciplina che coniuga comprensione della tecnologia, della psicologia e del linguaggio, per creare esperienze con chatbot e assistenti vocali “human-centric”. A me piace immaginare chi svolge questa professione come una sorta di giocoliere, che si destreggia abilmente tra linguaggio naturale, copywriting, addestramento di modelli di AI, analisi di dati, scrittura e design user experience». 

Tu come ti sei avvicinata a questo mondo?

«Nella mia prima vita lavorativa io ero una traduttrice, ho una laurea in Traduzione e interpretariato ed ora mi sto specializzando in Linguistica e studi cognitivi, per approfondire gli aspetti linguistici legati a questa professione. Diciamo che la mia passione è il testo scritto, poi nell’ormai lontano 2009 ho iniziato a lavorare online, come assistente da remoto. Grazie a questa esperienza ho creato la prima piattaforma italiana di formazione per assistenti virtuali. Questo passo ha segnato il mio ingresso nel mondo del web, e da lì ho cercato di essere sempre al passo con l’innovazione. Nel 2018 ho iniziato a sentir parlare di conversation design e nel giro di un anno mi sono certificata presso il Conversation Design Institute». 

Quali difficoltà incontra un conversation designer?

«Il nostro obiettivo è quello di rendere robot, macchine, computer, qualunque Ai più umana. Più nel dettaglio, cerco di rendere il loro linguaggio più naturale. E questo non è sempre facile. La difficoltà più comune è quella di insegnare al mio “allievo” ad interpretare contesti diversi. Un conto è creare una struttura con risposte automatiche, un altro è comprendere le conversazioni umane, che seguono degli schemi e una logica molto diversi da quella delle macchine. Un esempio concreto: il bot chiede, “vuoi una margherita, una capricciosa o un calzone?” e l’utente dice “la prima”. Nessun umano avrebbe difficoltà di comprensione, mentre il software che attende risposte fisse potrebbe andare in tilt. Per una macchina l’essere umano è del tutto imprevedibile». 

Quanto tempo richiede l’addestramento? 

«L’addestramento è costante. Il conversation designer fa la progettazione, progetta il sistema conversazionale. Poi però quando il chatbot è live, inizia il vero lavoro, perché il chatbot inizia ad interagire con esseri umani. Ma l’addestramento va sempre continuato, perché le variabili sono infinite. Dopo la fase di test e il lancio il conversation designer, o la figura addetta all’addestramento di Ai (Ai trainer) continuano a monitorare ed eventualmente modificano il flusso, in base ai dati ottenuti dalle interazioni dagli utenti con il chatbot o assistente vocale».

E come si delinea la personalità di un bot?

«Bisognerebbe proprio pensare a un personaggio, includendo dati anagrafici e caratteriali che definiranno il modo in cui interagirà con gli utenti, che vocabolario userà, le espressioni, il tone of voice. Ci sono bot che possono essere identificati come maschio o femmina, ma si parla sempre di più di creare bot senza un genere definito, perché la tecnologia dovrebbe essere genderless. Ad esempio, Siri all’inizio era femminile. Tutt’ora ha una voce femminile, ma a domanda diretta risponde di non avere sesso. Su questo ha influito anche la questione di genere: c’è un ampio movimento nato proprio intorno al fatto che tutte i principali assistenti virtuali hanno una voce femminile. Questo non fa altro che perpetuare bias di genere che vedono le donne come assistenti, obbedienti, remissive. C’è un’approfondita ricerca in merito, riportata nel libro The Smart Wife». 

Adesso a cosa stai lavorando?

«Insieme ad un amico sviluppatore abbiamo lanciato la piattaforma iaconversazionale.it, dove prossimamente terremo un corso di IA conversazionale, dal design allo sviluppo di interfacce conversazionali». 

 

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