Disabili, diversamente abili o persone disabilitate?

Una riflessione sul linguaggio inclusivo quando si parla di disabilità

    di Alexa Pantanella

     

    Quando modero workshop dedicati al linguaggio, osservo spesso le stesse reazioni: se si affrontano temi legati al linguaggio di genere, le persone il più delle volte hanno opinioni consolidate e variegate. E gli scambi possono diventare anche molto animati. 

    Quando si tratta di linguaggio riferito alla disabilità, le reazioni sono diverse, più caute, quasi timorose. Improvvisamente, la sensazione diffusa sembra quella di camminare sulle uova, perché molti sono i dubbi e le domande. Tra cui spicca ancora la questione di quale terminologia sia meglio utilizzare: “disabile si può dire?”, “Oppure, è meglio utilizzare diversamente abile?”. 

    Queste domande hanno certamente un intento positivo, quello di non commettere errori o di non offendere. Ma dicono anche molto della situazione generale: perché, quando si tratta di disabili, si ha così paura di commettere errori? Perché “disabile” può creare difficoltà, mentre “diversamente abile” sembra rasserenarci? Forse, dovremmo chiederci che idea abbiamo dei disabili, quale sguardo portiamo verso di essai. 

    Se il nostro immaginario tende ad andare verso una visione medicale e patologizzante del disabile, inteso come malattia da curare, allora il termine può mettere a disagio. Perché diventa sinonimo di qualcosa che non va nella vita di una persona, di un “problema irreversibile”. 

    Per gli stessi motivi, potremmo trovare “diversamente abile” più consono in quanto, pur consapevoli dell’esistenza di una persona disabile, riconosciamo alla persona delle abilità, diverse da quelle che rappresentano la norma, ma pur sempre delle abilità.

    Seppur seducente nel suo intento, “diversamente abile” veicola una buona dose di buonismo e abilismo, per cui non è consigliabile utilizzarla. E poi, in fondo, chiunque di noi è abile in modo diverso, cioè “diversamente abile”.

    Coerentemente con il più recente Modello BioPsicoSociale, secondo il quale la disabilità non è più da intendersi come una caratteristica della persona, considerata malata, ma è una conseguenza data dall’interazione con l’ambiente (sociale, culturale, economico, fisico, tecnologico, lavorativo), che può essere più o meno abilitante (o disabilitante), mi piace propendere per un’altra espressione: “persone disabilitate”

    Data la capacità che ha il linguaggio di dare forma e direzione ai nostri pensieri e processi cognitivi, parlare di “persone disabilitate” ci consentirebbe di spostare il focus dall’individuo al contesto, dalla condizione statica e individuale, a un processo dinamico che si definisce tra l’individuo e l’ambiente.

    Utilizzando “persone disabilitate”, porteremmo il nostro sguardo dalle limitazioni individuali, alle responsabilità collettive. Se è vero, come diceva Bomprezzi, che “la disabilità è negli occhi di chi guarda”, è ora che iniziamo un cammino per modificare lo sguardo che, collettivamente, portiamo sul disabile. Modificare l’uso di alcune parole e terminologie può essere un modo tangibile per iniziare a percorrere questa strada. 

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    Da sempre appassionata di informazione e linguaggi, Alexa Pantanella inizia la sua esperienza professionale in alcune tra le maggiori agenzie di marketing e comunicazione, in Italia e all’estero, dove dirige un’agenzia del Gruppo Omnicom per la Francia. Nel 2014, rientra in Italia, come Responsabile della Comunicazione e Media in Luxottica. Nel 2018 fonda Diversity & Inclusion Speaking©, finalizzata a promuovere il ruolo del linguaggio come strumento d’Inclusione, attraverso programmi di formazione, iniziative di comunicazione e progetti di ricerca. Nel 2022, ha pubblicato “Ben Detto”, primo saggio in Italia dedicato al linguaggio inclusivo.