Le aziende che vogliono definirsi inclusive devono creare un ambiente di lavoro che trasformi la ricchezza della diversità in motore di evoluzione
Di Luciana De Laurentiis, Head of Corporate Culture & Inclusion di Fastweb
“Non si può più dire niente”. Questa frase è sempre più frequente: usare le parole giuste per non offendere sembra a volte un percorso a ostacoli.
A partire dal termine stesso di “inclusione”, che sebbene oggi ci stia aiutando a definire un processo di evoluzione attraverso azioni concrete, rimarca comunque una differenza di posizione tra chi include e chi viene incluso. Eppure queste difficoltà non possono diventare un alibi.
Il vocabolario Treccani definisce l’inclusività come:
1. Capacità di includere.
2. In particolare, capacità di includere più soggetti possibili nel godimento di un diritto, nella partecipazione a un’attività o nel compimento di un’azione; più in generale, propensione, tendenza ad essere accoglienti e a non discriminare, contrastando l’intolleranza prodotta da giudizi, pregiudizi, razzismi e stereotipi.
Il linguaggio ampio, rappresentativo, inclusivo è dunque una responsabilità di tutte e tutti, perché l’impegno a far sentire più rappresentate tutte le persone e in particolare quella parte di umanità che storicamente lo è stata meno, deve essere condiviso a favore di un cambiamento duraturo. A partire dal linguaggio in uso nel mondo del lavoro.
L’evoluzione del contesto sociale ha infatti portato con forza il tema delle diversità nelle organizzazioni. Se in un passato anche recente, la diversità era vissuta come un tema da “risolvere” con azioni di contrasto alle possibili discriminazioni, oggi è sempre più chiaro che la convivenza tra differenze vada ricercata consapevolmente, perché in grado di generare valore sociale ed economico.
È dunque compito delle organizzazioni che vogliono definirsi inclusive creare un ambiente di lavoro che da un lato permetta alla ricchezza della diversità di diventare motore dell’evoluzione, dall’altro crei nuovo valore anche attraverso una comunicazione coerente.
Il linguaggio inclusivo non è pura ideologia, ma una questione molto pratica nelle organizzazioni: riguarda siti web, newsletter, portali di assistenza clienti, social media, campagne di marketing, comunicati stampa, videogiochi, comunicazione interna e molti altri tipi di contenuti.
Perché prestare attenzione al potere delle parole?
Perché se una persona viene chiamata in un certo modo una, dieci, cento volte, allora quella diventa la sua identità sociale, indipendentemente dal fatto che vi si riconosca oppure no.
E questo vale per chi lavora per un’organizzazione e per il pubblico che impara a conoscerla.
Ci sono però parole che permettono di entrare in connessione più velocemente e nella maggior parte dei casi si tratta semplicemente di termini più rispettosi e di testi che siano davvero comprensibili e accessibili dal maggior numero di persone possibile.
Ci sono alcune accortezze utili, riporto qui solo qualche esempio:
Anche se non ci sono soluzioni uniche o definitive sui linguaggi inclusivi, in Fastweb abbiamo voluto mettere a fattor comune alcune riflessioni sul tema e abbiamo realizzato 2 contenuti aperti a chiunque voglia allenarsi a riconoscere e abbattere le barriere della lingua:
L’invito in generale è a farsi più domande sull’impatto delle parole che scegliamo e a informarsi per far sì che ciò che diciamo o scriviamo sia adatto alle infinite sensibilità che la convivenza tra differenze porta con sé.
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