Sempre più aziende si affidano a chatbot e programmi automatizzati. Ma c’è chi va controcorrente
Randstad, colosso mondiale dell’HR, lavora da tempo a “Wade&Wendy”, una chatbot automatizzata che dialoga con clienti e candidati, aiutandoli a valorizzare opportunità o modellare al meglio il loro profilo.
Unilever, società titolare di 400 marchi tra i più diffusi nel campo dell’alimentazione e dei prodotti per la casa, ha messo a punto un videogioco in 12 prove da risolvere in 20 minuti. Un sistema che ha permesso all’azienda di scremare fino all’80% dei 250 mila cv ricevuti ogni anno.
Sono solo due dei moltissimi esempi di intelligenza artificiale al servizio delle risorse umane: un matrimonio ormai consolidato e che, dicono gli esperti, nel futuro prossimo diventerà irrinunciabile.
Lo scenario è lo stesso in tutto il mondo e l’Italia non fa eccezione: lo conferma un’indagine dell’Aidp (l’associazione italiana per la direzione del personale) a cura di Doxa (società specializzata nelle ricerche di mercato e sull’opinione pubblica). Secondo la survey, sei aziende su dieci (61%) sono pronte a introdurre sistemi di intelligenza artificiale e robot nelle proprie organizzazioni. Solo l’11% si dichiara totalmente contrario. Tra le ragioni principali che spingono le aziende ad introdurre questi sistemi c’è la convinzione che il loro utilizzo renda il lavoro delle persone meno faticoso e più sicuro (93%). Ma anche che faccia aumentare l’efficienza e la produttività (90%) e abbia portato a scoperte e risultati un tempo impensabili (85%). Soprattutto nelle ricerche di pre-screening, poi, l’ampia maggioranza degli intervistati dichiara che i sistemi di ricerca automatizzati sono già realtà.
La selezione delle risorse umane è un settore in cui le grandi aziende investono moltissimo, perché reclutare il profilo giusto, inutile dirlo, fa la differenza. Ma il lavoro di selezione è lungo e gravoso. Sempre secondo l’Aidp, i manager ne sono talmente assorbiti che alla fine riescono a leggere con la dovuta attenzione solo il 30% dei cv che ricevono. Il rimanente 70% viene accantonato senza quasi essere visto.
L’uso dell’intelligenza artificiale semplifica le procedure, riduce di molto le tempistiche e, in qualche caso, risulta più efficace rispetto al lavoro umano. Secondo un’indagine condotta dall’università di Toronto, in Canada (citata dalla Harvard business review), infatti, il reclutamento fatto attraverso gli algoritmi risulta più efficace del 25% rispetto alle assunzioni fatte dai recruiter tradizionali, indipendentemente dalla posizione per la quale viene fatto il colloquio di assunzione.
Meglio lasciare questo compito alle macchine, suggerirebbe una veloce conclusione. Ma non è sempre così. Gabriele Morandin e Marcello Russo, co-Direttori Scientifici del Master in HR & Organization all’università di Bologna, in un contributo scientifico sul tema citano ad esempio il caso di Amazon. La società, scrivono i docenti, ha «deciso di ridurre l’utilizzo degli algoritmi nel processo di reclutamento per alcuni “effetti indesiderati” e potenzialmente discriminatori. Ad esempio, l’algoritmo di Amazon, basandosi sullo storico delle performance evaluation dei vari dipendenti, continuava ad attribuire punteggi inferiori alle candidate donne rispetto agli uomini a causa della storica disparità numerica tra uomini e donne. Simili criticità si riscontrano in altre aziende con algoritmi che sistematicamente attribuiscono valutazioni più positive ai candidati bianchi rispetto ai candidati di colore, perpetuando storici stereotipi che le nuove tecnologie dovrebbero aiutare ad eliminare».