Dubbi e riflessioni di un lavoratore di fronte alla proposta di un incarico all’estero
Mi chiamo Giovanni, sono un ingegnere gestionale italiano di 38 anni “espatriato” da poco negli Stati Uniti.
Nel 2019, a luglio, la mia azienda mi propose un importante incarico all’estero, e, come immagino sia abbastanza comune in questi casi, esaurito l’entusiasmo iniziale, il sentimento principale che provai fu di totale disorientamento.
Non avevo la minima idea di come mi sarei dovuto muovere: dalla contrattazione con la mia azienda, alla vita nel nuovo paese, alla casa, la famiglia, le pratiche, il visto, ma soprattutto.. la burocrazia!
Cercai di rilassarmi e affrontare una cosa alla volta.
L’offerta che mi prospettarono fu quella di seguire l’avvio e la messa a regime di un nuovo stabilimento produttivo negli Stati Uniti, che implicava un trasferimento all’estero per circa due anni, al termine dei quali avremmo valutato come proseguire.
In tutto ciò, quanto alla mia vita privata, mi ero sposato di recente, avevo un figlio di quasi un anno, e mia moglie era appena rientrata al lavoro dopo la maternità.
IL PRIMO INCONTRO CON LE HR: LE PROPOSTE
Al primo incontro con l’ufficio delle risorse umane incaricato della gestione della mia pratica, mi vennero prospettate diverse soluzioni in considerazione della mia situazione personale.
Mi parlarono di distacco, di commuting e di local plus. Potete immaginare la mia confusione..
A seguito di un lungo confronto, le tre soluzioni che mi proposero, e tra cui avrei dovuto scegliere, furono le seguenti:
Distacco: avrei mantenuto il mio contratto di lavoro italiano, ma per questi due anni sarei stato “prestato” alla società americana per portare a termine il progetto nell’interesse del gruppo. In questo caso avrei potuto portare con me la mia famiglia e l’azienda mi sarebbe venuta incontro con una serie di benefit a discapito del mio stipendio, che non avrebbe subito un grosso aumento.
Commuting: questa soluzione era simile alla precedente, con la differenza che la mia famiglia sarebbe rimasta in Italia e a me sarebbe stata concessa la possibilità di rientrare ogni due settimane, con buona pace del jet-lag. In questo caso la proposta economica sarebbe stata sicuramente più allettante.
Local Plus: mi sarebbe stato offerto un contratto di lavoro americano in sostituzione del mio attuale contratto italiano. In questo caso avrei ricevuto un sostanzioso aumento e tutto il supporto per far inserire mia moglie nel mercato del lavoro americano.
Scegliere era davvero complicato. Quale opzione sarebbe stata la migliore? Per legge non esisteva alcun obbligo in relazione alle opzioni proposte, quindi dovevamo giocarcela nella negoziazione, e per me la scelta sarebbe stata strettamente personale.
Vorrei raccontarvi di tutte le mie elucubrazioni e i ragionamenti fatti la sera a cena con mia moglie sulle diverse soluzioni, ma mi limiterò a dirvi che, in base alle mie esigenze, optai per la prima.
Comunicata la mia preferenza all’ufficio del personale, venni convocato per un nuovo incontro in cui discutere il mio “pacchetto di espatrio”. Rimasi sorpreso perché si trattò di discutere a tavolino tutta una serie di voci divise tra indennità, benefit e servizi che l’azienda era disposta ad offrimi.
Poiché scelsi il “distacco”, il mio “pacchetto di espatrio” era così composto:
Alloggio: l’azienda mi avrebbe messo a disposizione un appartamento ammobiliato.
Voli di rientro: io e la mia famiglia avremmo avuto la possibilità di rientrare in Italia 2 volte all’anno a spese dell’azienda, oltre ovviamente al volo di andata e ritorno all’inizio e al termine del distacco.
Assicurazioni sanitarie: saremmo stati coperti da una polizza sanitaria integrativa, che negli Stati Uniti era un elemento fondamentale.
Assistenza fiscale: avrei avuto un consulente fiscale a disposizione per rispondere correttamente agli obblighi fiscali sia in Italia che negli Stati Uniti.
Assistenza migratoria: avrei avuto a disposizione un consulente che avrebbe provveduto all’ottenimento di tutti i permessi necessari per me e per la mia famiglia.
Al termine dell’incontro fui molto soddisfatto dal risultato perché, come mi confermò un amico avvocato, anche in questo caso, in assenza di specifiche previsioni, piuttosto rare, contenute nei contratti collettivi, tutto questo stava alla negoziazione tra le parti, e a me sembrava che i temi principali fossero stati toccati.
Un paio di giorni dopo l’ufficio del personale mi sottopose la lettera di distacco, che era stata preparata sulla base di quanto concordato.
A questo punto mi rimanevano pochi dubbi, che furono risolti da una lettura attenta del documento.
A chi avrei dovuto rispondere da un punto di vista gerarchico ma anche organizzativo, in altre parole, chi sarebbe stato il mio capo?
Mi fu subito chiarito che per l’organizzazione del lavoro in sé il mio riferimento sarebbe stato il direttore generale della società americana, mentre per le questioni organizzative, ed eventualmente disciplinari, avrei continuato a fare riferimento alla struttura italiana.
Cosa sarebbe successo nel caso in cui avessi avuto necessità di tornare in Italia, per motivi ad esempio familiari, prima del termine dei due anni?
A questo proposito il contratto prevedeva la possibilità di rientrare in Italia senza la necessità di rispettare un particolare preavviso, per motivi di salute miei o dei miei familiari; elemento che, avendo dei genitori anziani, per me ricopriva una certa importanza.
Come contraltare, era previsto che l’azienda potesse richiamarmi in Italia in caso di necessità, con un minimo di preavviso.
Cosa ne sarebbe stato di me al termine di questi due anni?
Questa era l’unica domanda a cui nessuno comprensibilmente avrebbe potuto davvero darmi una risposta. Le variabili infatti erano molte e, sebbene l’opzione scelta mi consentisse di mantenere il mio rapporto di lavoro italiano, al termine dei due anni si sarebbe fatta una valutazione sull’opportunità di rientrare o, chissà, magari di accettare un ruolo stabile presso la società americana. Quello che mi era chiaro fu che in ogni caso sarebbe stato tutto da ricontrattare.
Un paio di settimane dopo la firma della lettera di distacco, mi organizzarono un “Tax briefing” e un “Immigration briefing”, rispettivamente con il consulente fiscale che avrebbe gestito la mia posizione e con il legale americano che mi avrebbe supportato nella richiesta del permesso.
Da quel poco che capii dal primo incontro, considerato che sarei partito presumibilmente a gennaio 2020 e che la mia famiglia sarebbe venuta con me, avrei potuto pagare le tasse solamente negli Stati Uniti iscrivendo me, mia moglie e mio figlio all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero); mentre avrei potuto mantenere i miei contributi in Italia, cosa che mi preoccupava guardando ad un futuro, seppur molto lontano.
Mentre la parte fiscale risultò tutto sommato semplice, non posso dire lo stesso di quella migratoria, per cui ci vollero diversi mesi e montagne di documenti, di traduzioni e legalizzazioni per ottenere l’agognato visto per lavorare negli Stati Uniti e portare con me la famiglia.
Alla fine, dopo 4 mesi fu tutto pronto e, leggermente in ritardo sulla tabella di marcia, iniziò finalmente questa nuova avventura.
Confrontandomi con la nutrita comunità di italiani “espatriati” di cui sono entrato a far parte poco dopo il mio arrivo negli Stati Uniti, mi sono reso conto di essere stato piuttosto fortunato per l’assistenza ricevuta dalla mia azienda. La quale, a differenza di altre realtà, è stata in grado di fornirmi (e mi fornisce ancora) un importante supporto per vivere questa esperienza nel migliore dei modi, consentendomi di concentrare tutta le energie sul mio progetto lavorativo.
La mia testimonianza rappresenta un esempio virtuoso di come sia importante per un’azienda gestire con competenza e cura l’espatrio, che, ci tengo a sottolinearlo, per un lavoratore non è solo un’esperienza di lavoro ma anche di vita.