Le donne studiano di più, ottengono voti migliori e, appena entrate nel mondo del lavoro, occupano le stesse posizioni dei colleghi uomini. Poi si crea il gender gap. Un dislivello evidente tanto nelle retribuzioni quanto negli avanzamenti di carriera
La differenza si vede fin dai banchi di scuola: le bambine sono più attente, più propense allo studio e, solitamente, più brave rispetto ai bambini. Nella formazione, le donne conquistano titoli di studio più alti (le laureate sono sensibilmente di più rispetto ai laureati uomini) e ormai, nei corsi universitari, sono ben rappresentate nella maggior parte delle discipline. Compresa l’area STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) dove tuttavia, specie in alcuni settori, sono ancora in minoranza. Ma improvvisamente, nell’arco della carriera, qualcosa cambia. Si crea un gap, un dislivello dove è facile mettere il piede in fallo. Così le donne guadagnano meno, faticano ad ottenere avanzamenti, e nei ruoli dirigenziali sono una netta minoranza.
Segnaliamo che questo articolo fa parte della campagna “WI LOVE EQUALITY” – promossa dallo studio legale WI LEGAL e SHR Italia, in collaborazione con laborability – che sostiene la gender equality promuovendo un atteggiamento etico ed equo nel mondo del lavoro. Attraverso l’informazione, con articoli, video interviste e appuntamenti, ci impegniamo a sostenere cause giuste e inclusive per guardare a un futuro migliore.
Che le donne siano più brave nello studio ce lo confermano, ogni anno, numerose statistiche. Secondo Almadiploma, lo scorso anno sono uscite dalla scuola dell’obbligo con 10 o 10 e lode il 16,2% delle studentesse, contro il 10,2% degli studenti. L’ultima rilevazione Istat (aggiornata al 2019) ci dice, inoltre, che nel nostro Paese le donne con almeno il diploma sono quasi i due terzi del totale (il 64,5%), quota di circa 5 punti percentuali superiore a quella degli uomini. Una differenza che, nella media Ue, è di appena un punto percentuale. Le donne laureate sono il 22,4% contro il 16,8% degli uomini, vantaggio ancora una volta più marcato rispetto alla media Ue.
Ma dopo la laurea, che succede? Secondo uno studio pubblicato da due docenti americane (Yue Qian, della University of British Columbia e Jill Javorsky della University of North Carolina) il mondo del lavoro rispecchia abbastanza fedelmente i successi scolastici e accademici. Chi, quindi, raggiungeva risultati migliori o mostrava spiccate capacità di leadership già dai tempi della scuola riesce bene, poi, anche nel mondo del lavoro. Almeno finché non si diventa genitori. Qui le strade si dividono: per i papà tutto bene, per le mamme la carriera subisce uno stop. Addirittura, gli uomini che a scuola ottenevano voti più bassi hanno comunque migliori possibilità di carriera rispetto alle donne che prima erano più brave ma poi hanno messo su famiglia. In altre parole la maternità, con il carico di impegno materiale e immateriale che richiede, diventa una zavorra potenzialmente in grado di affossare anche le migliori menti femminili. Con buona pace della parità di genere.
Anche qui, le statistiche parlano chiaro. Gli studi condotti dal G20 Empower (l’alleanza del G20 per l’empowerment e la promozione della rappresentanza delle donne nell’Economia) in collaborazione con l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) testimoniano che nessuno dei paesi membri del G20 ha ancora raggiunto l’obiettivo della parità uomo/donna in posizioni manageriali, fissato dall’ONU nell’Agenda 2030. E i progressi sono molto lenti: dal 2010 al 2019, la quota media di donne in posizioni manageriali è rimasta pressoché invariata, poco sopra il 30%. Il valore più alto, raggiunto proprio nel 2019, era pari al 32,4%. La percentuale media di donne nei consigli di amministrazione delle aziende è cresciuta, dal 2016 al 2019, di 3 punti percentuali, passando dal 15 al 18%.
La discriminazione, come tristemente noto, è anche sul fronte salariale. Prima del Covid-19, l’Istat rilevava una differenza nella paga oraria superiore al 7%. Una differenza che, come sottolineato da Monica D’Ascenzio sul Sole 24 Ore, può impressionare poco se calcolato sulla singola ora di lavoro, sulla mensilità o anche sul reddito annuo. Ma diventa un divario gigantesco se preso nel suo insieme, quindi nel corso di un’intera carriera lavorativa. Anche qui, le indagini statistiche sono numerose: una particolarmente approfondita era stata commissionata, alcuni anni fa, dall’Unione Europea. Le autrici (Susanne Burri, Hanneke van Eijken) sottolineano come nella retribuzione utile ai fini del confronto non si possa considerare solo lo stipendio base. Vanno aggiunti bonus, incentivi, fringe benefitl’insieme dei vantaggi concessi dal datore di lavoro ai propri dipendenti come forma remunerativa complementare alla retribuzione principale (per es. auto a disposizione, borse di studio, viaggi premio, ecc.) More, compensi a titolo straordinario, trattamenti di trasferta, corsi di formazione. Tutti trattamenti ad personam che, come avevamo avuto già occasione di analizzare, allargano irrimediabilmente la forbice.
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