In molti casi il lavoro aiuta a preservare il cervello dall'invecchiamento delle cellule. Uno studio del SISSA e Università di Padova
L’invecchiamento cognitivo può essere rallentato, e anche evitato, mantenendo il cervello in attività. In particolare, non solo l’attività fisica, o l’impegno in hobby e altri ambiti della quotidianità, ma anche il lavoro è importante nel prevenire l’invecchiamento cognitivo. A dirlo è un interessante studio che ha analizzato a fondo quali siano i processi che influiscono nell’andamento del declino cognitivo. La ricerca è stata condotta dal SISSA e dall’Università di Padova, che ha preso in esame un ampio campione di popolazione italiana.
Non sempre il lavoro logora, anzi. Una recente ricerca dimostra come l’attività lavorativa abbia un ruolo attivo nel mantenere in salute il nostro cervello. “Abbiamo dimostrato l’influenza che ha l’occupazione sulle prestazioni cognitive spiega la professoressa Raffaella Rumiati, neuroscienziata cognitiva della SISSA.
“Gli studi per identificare i fattori che influiscono sulla nostra attività mentale nel corso dell’invecchiamento sono numerosi, ed era già nota l’influenza di altri fattori legati alla qualità della vita, come l’apprendimento continuo. Dalla nostra analisi emerge come alle differenze nell’invecchiamento cognitivo normale e patologico contribuisca anche il tipo di attività lavorativa”.
Lo studio, condotto da un team di scienziate dell’Università di Padova, SISSA – Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati e IRCSS Ospedale San Camillo di Venezia, ha quantificato il contributo relativo di fattori demografici (età e sesso), presenza degli stessi disturbi fisici e psicologici, istruzione e tipo di occupazione a ciò che tecnicamente viene chiamato riserva cognitiva, ovvero la capacità di resilienza del cervello rispetto a un danno cerebrale dovuto a una patologia o all’invecchiamento.
In altre parole, hanno studiato quali siano i fattori che incidono sulla capacità del nostro cervello di reagire all’invecchiamento o alle malattie. I partecipanti sono stati valutati con una serie di test neuropsicologici, e poi sono stati suddivisi in tre tipologie di profili sulla base dei risultati: soggetti a rischio di declino cognitivo, soggetti con declino lieve e soggetti con declino avanzato.
I test sono stati condotti altre due volte a distanza di alcuni anni: successivamente i partecipanti sono stati classificati come “resistenti” o “in declino” a seconda che avessero mantenuto o peggiorato il loro profilo rispetto alla loro performance iniziale.
La novità più importante emersa nell’analizzare i risultati è che, oltre all’età e all’istruzione, fattori già studiati nella letteratura sul tema, anche l’occupazione si è rivelata come un elemento determinante per le prestazioni dei partecipanti alle diverse fasi di somministrazione dei test.
A spiegarlo è la professoressa Sara Mondini dell’Università di Padova: “Abbiamo confermato che l’istruzione protegge le persone potenzialmente a rischio di sviluppare il declino cognitivo ma, soprattutto, abbiamo dimostrato che questi stessi individui avevano svolto professioni più complesse degli individui degli altri due gruppi, i soggetti con declino cognitivo lieve e avanzato. Lo studio ha evidenziato, inoltre, come il gruppo dei “resistenti” mostrasse, in media, livelli superiori di istruzione e un’attività lavorativa che prevedeva mansioni più complesse rispetto al gruppo “in declino”.
Un risultato che dimostra i benefici della mobilitazione cognitiva promossa dal life-long learning, ovvero l’apprendimento permanente, e, più in generale, come connessione sociale, senso costante di uno scopo e capacità di essere indipendenti, sono fattori che contribuiscono alla salute cognitiva, e al benessere generale, nell’affrontare l’invecchiamento.
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