La tendenza a cambiare impiego con frequenza è sempre più affermata. Come risultare più attrattivi in questo mercato del lavoro in rapida evoluzione?
Le competenze richieste dal mondo del lavoro evolvono a una velocità a cui è umanamente impossibile stare dietro. Il ciclo di vita di molte professioni si è irrimediabilmente accorciato, tanto da mettere in crisi gli atenei: i corsi durano cinque anni e rischiano di preparare professionisti che, a formazione completata, potrebbero non servire già più.
Parallelamente, diventa sempre più breve anche il tempo di permanenza in una stessa azienda: le giovani generazioni cambiano posto di lavoro ogni 2, massimo ogni 4 anni.
Come sopravvivere a questa caducità delle competenze e delle professioni? La risposta si chiama learning agility. Lo racconta Federico Vigorelli Porro, managing partner di Choralia e Top Voice di LinkedIn, nel corso del seminario online “Learning agility sempre più al centro della gestione organizzativa del personale”.
“Studi recenti – esordisce Vigorelli Porro – mostrano come la durata media della permanenza in uno stesso posto di lavoro va accorciandosi. Per le nuove generazioni il tempo medio va da 2 a 4 anni. E questo, da un lato, ha una spiegazione fisiologica: avendo in generale meno anni di esperienza, i giovani hanno anche più probabilità di avere esperienze brevi”.
“Dall’altro – continua l’esperto – è sotto gli occhi di tutti il fatto che le nuove generazioni sono meno propense ad affiliarsi. Vediamola così: per i boomer il rapporto di lavoro era un matrimonio, per i millennials più una convivenza, per i giovanissimi è come Tinder, che oggi va tutto bene ma domani non so neanche se ti richiamo. Chiaramente è una battuta, ma rende l’idea di come sta cambiando il mondo del lavoro, anche dal punto di vista valoriale”.
“Inoltre, noi ci concentriamo molto sui giovani e sulla loro inclusione ma c’è anche l’age gap da considerare: per chi ha 45 o 50 anni ricollocarsi nel mondo del lavoro una volta usciti può essere molto, molto difficile.
Chiaramente ci sono differenze importanti fra un trentenne e un cinquantenne, ma mi preme ricordarne una in particolare che è nella mente di ogni selezionatore, e sta nell’approccio all’apprendimento. Non si tratta di una skill specifica, ma di un profilo di competenze”.
“Mi spiego: le generazioni boomer erano abituate ad un mondo del lavoro dove le competenze venivano concepite come verticali: entro in azienda con una certa conoscenza in quel settore, esco trent’anni dopo con una conoscenza molto più approfondita ma non più ampia, sempre verticale. Non è lo stesso scenario che hanno davanti le generazioni Y e Z, nate in un mondo in cui le professioni nascono e muoiono con relativa rapidità”.
“Alcune statistiche ci dicono che molti lavori sono destinati a sparire nel giro di pochi anni: non credo che sia realmente così, questi dati potrebbero essere sovrastimati, ma il concetto è aderente alla realtà. Di conseguenza, capiamo bene che per come si muove il mercato del lavoro oggi è fondamentale oggi avere competenze non verticali ma più a T”.
Questo, tradotto, significa che servono più competenze “flessibili”, che possono servire in un ambito o in un altro, che si possono “riscattare” in un ruolo o in un altro.
“Non è un mistero – esemplifica Vigorelli Porro – che le competenze tecnologiche oggi sono attrattive. Ma non dobbiamo assumere che lo saranno sempre: con i passi da gigante che sta facendo l’intelligenza artificiale non è detto che in futuro la conoscenza specifica del linguaggio di programmazione sarà ancora così importante”.
E qui entra in gioco la learning agility.
“Una competenza che non tutte le organizzazioni cercano in modo esplicito ma che di fatto va a completare un profilo in modo dirimente se la scelta è fra due candidati” dice l’esperto.
Come allenarla o dimostrarla, quindi?
“La learning agility – continua Vigorelli Porro – è come la flessibilità articolare: tutti ce l’hanno e ce l’hai a 15 come a 80 anni, ma chiaramente se in tutta la tua vita non l’hai mai allenata a 80 anni farai molta fatica.
Questa capacità è una forma di elasticità di apprendimento: la capacità di entrare in una situazione incerta e capire cosa bisogna fare, lavorando per prove ed errori. Più noi alleniamo questa competenza e meglio è, perché ci consente di entrare in ruoli diversi in modo flessibile, adattandoci di volta in volta”.
“Dal curriculum può emergere, ad esempio, quando si alternano diverse esperienze, quando il percorso è frammentato: alcuni selezionatori possono vederlo come un sintomo di incertezza, ma altri possono valorizzare questa varietà come un punto di forza. Chiaramente, più avanza l’età e più si privilegia la coerenza”.
Quanto all’allenamento: “cambiare percorsi e investire sulla formazione – conclude l’esperto – è sicuramente una buona base”.
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