Solo il 30% dei lavoratori pensa che la propria azienda stia facendo passi avanti sul fronte della D&I. Alcuni semplici suggerimenti per migliorare con le parole
Meno di un lavoratore su tre pensa che la propria azienda stia facendo passi avanti sul fronte della Diversity & Inclusion. Eppure il tema è molto sentito, tanto che il 75% dei dipendenti italiani prenderebbe in considerazione la possibilità di cercare un nuovo lavoro se scoprisse che manca una politica di diversità e inclusione nella sua azienda.
Vediamo come adottare politiche più inclusive a partire dal linguaggio: quali sono, quindi, alcune semplici regole da mettere in pratica, le parole da usare e quelle da cancellare dal nostro vocabolario.
Il linguaggio che usiamo in azienda può avere un impatto significativo sulla cultura e sul clima lavorativo. Parlando in modo inclusivo, infatti, dimostriamo rispetto e considerazione per tutti i nostri dipendenti, indipendentemente dalla loro identità di genere, orientamento sessuale, etnia o abilità. Questo crea un ambiente di lavoro più accogliente e stimolante per tutti.
Non solo: il linguaggio inclusivo contribuisce anche alla retention dei talenti in azienda. Quando i dipendenti si sentono valorizzati perché vengono trattati con rispetto nel modo in cui li si interpella e ci si rivolge a loro, si sentono più legati all’azienda e quindi meno propensi a cercare alternative altrove.
Lo dimostrano le statistiche sul tema: secondo l’ultimo rapporto “People at Work”, pubblicato dal’ADP Research Institute, tre quarti (75%) dei dipendenti italiani, prenderebbe in considerazione la possibilità di cercare un nuovo lavoro se scoprisse l’esistenza di un divario retributivo tra uomini e donne, o l’assenza di una politica di diversità e inclusione nell’azienda. L’inclusività, quindi, sta diventando un importante elemento di retention.
Tuttavia, solo il 27% dei lavoratori italiani pensa che la propria azienda sia migliorata in queste politiche.
Dimostrare rispetto per gli altri imparando a usare un linguaggio inclusivo è uno dei modi per vivere il valore dell’inclusività ogni giorno, anche sul luogo di lavoro. Le occasioni per usare un linguaggio più inclusivo sono tante, evitando così la terminologia offensiva o superata.
Tra le buone prassi, si consiglia di sostituire espressioni stereotipate o discriminanti con termini neutri. Ad esempio, anziché dire “ragazzi” o “signore”, si possono termini come “persone”.
Un altro suggerimento è quello di usare il nome preferito delle persone e rispettare la loro identità di genere. Se qualcuno preferisce essere chiamato con pronomi diversi dal tradizionale lui/lei, è bene sforzarsi di utilizzare i pronomi corretti.
Ancora: evitare assolutamente generalizzazioni basate su stereotipi culturali o nazionalità. Ogni individuo è unico e dovrebbe essere trattato come tale.
Anche che il tono con cui comunichi può influenzare la percezione degli altri. Un atteggiamento sempre gentile e rispettoso verrà quindi percepito come più inclusivo.
ADP, multinazionale americana leader nella gestione del capitale umano, ha sensibilizzato i suoi 58.000 dipendenti condividendo una guida a uso interno per suggerire come rendere più inclusivo il linguaggio in azienda.
L’azienda ha selezionato, ad esempio, alcuni modi di dire tutt’ora molto in uso ma con un’origine o un sottotesto chiaramente razzista o discriminatorio. Tra questi, i più noti sono “lavorare come uno schiavo” o peggio ancora “come un negro”.
Ma andrebbe eliminato anche il cosiddetto linguaggio “abilista” (ad es. “non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire” o “chi va con lo zoppo impara a zoppicare”): l’uso di umorismo o metafore per riferirsi a disabilità, salute mentale o disturbi mentali sminuisce l’esperienza delle persone colpite e di chi li supporta.
Anche usare l’ironia per riferirsi all’età delle persone sottintende un trattamento non paritario e/o offensivo nei confronti di chiunque abbia età diverse (esempio frasi come “sei troppo giovane/vecchio per capire”).
Difficilmente ci si fa caso, ma molti termini tecnologici e commerciali fanno purtroppo riferimento al colore della pelle. Pensiamo alle parole blacklist o whitelist: meglio utilizzare “elenco non autorizzato” o “elenco autorizzato”.
Infine: invece di usare espressioni fortemente legate al genere per indicare caratteristiche o azioni altrui (come ad esempio “avere gli attributi”, “portare i pantaloni”, ecc.), meglio sostituirle con altra terminologia neutra che spieghi allo stesso modo cosa intendiamo (ad esempio “persona che dimostra determinazione” o “persona che prende le decisioni”, ecc.).
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