Quali sono i poteri dell’azienda e le tutele dei lavoratori in caso di cambio mansioni
“Queste sono mansioni che non mi spettano!” oppure “Sono stato demansionato!”: quante volte abbiamo sentito pronunciare queste frasi da nostri amici e conoscenti? Riguardano il complesso tema delle mansioni e dell’inquadramento e i limiti dell’esercizio del potere direttivo del datore di lavoro.
Tecnicamente si parla di ius variandi, che è la particolare facoltà dell’azienda di cambiare le mansioni del lavoratore. È una possibilità prevista dalla legge e il lavoratore può opporsi solo in determinate ipotesi.
Le mansioni comprendono le attività che in concreto vengono affidate al lavoratore al momento dell’assunzione o in momenti successivi.
Secondo l’ articolo 2103 del codice civile “il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”.
Il datore, quindi, non può decidere casualmente quali mansioni dare al suo dipendente. Queste sono strettamente legate all’inquadramento e a quanto è stato definito in fase di assunzione.
Il cambio di mansioni è espressamente disciplinato sempre dall’articolo 2103 del codice civile. Quello che prevede la legge oggi è il risultato del Jobs ActIndica il pacchetto di provvedimenti legislativi con cui si è attuata la riforma del diritto del lavoro in Italia tra il 2014 e il 2015. More, la riforma del lavoro avvenuta nel 2015.
Il mutamento può riguardare mansioni superiori o mansioni inferiori. Il datore quindi può modificarle andando ad attribuirne di superiori ma anche di inferiori.
Nel caso di mansioni superiori, “il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta”. In questo caso, il dipendente può sempre opporsi al mutamento.
In mancanza di opposizione, l’assegnazione a mansioni superiori diventa definitiva, se non è stata disposta per ragioni sostitutive, “dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi.”
I problemi sorgono invece nel caso in cui siano inferiori a quelle svolte dal lavoratore. L’articolo 2013 del codice civile consente l’assegnazione a mansioni inferiori, anche senza il consenso del lavoratore, in caso di “modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore” e a condizione che le nuove mansioni rientrino nella “medesima categoria legale”.
Altre ipotesi possono essere espressamente previste dai contratti collettivi. In queste ipotesi, in caso di contestazione, sta all’azienda dimostrare che ci sono delle valide motivazioni alla base del demansionamento.
La legge poi prevede alcune formalità:
Sì, è possibile opporsi. Il lavoratore può contestare le ragioni aziendali e che le nuove mansioni rientrino “nella medesima categoria legale”. Ma attenzione: il dipendente non può semplicemente rifiutarsi di eseguire la prestazione perché, a suo dire, le nuove mansioni sono illegittime.
Deve comunque eseguirle fino a che che non interviene un provvedimento giudiziario. Sul punto, proprio con riferimento alla mancata presentazione al lavoro, la Corte di Cassazione, con la sentenza numero 26199 del 6 settembre 2022, ha precisato che il rifiuto di rendere la prestazione “è applicabile solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro o in ipotesi di gravità della condotta tanto grave da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore medesimo”, ipotesi che non ricorrono nel caso in cui si venga adibiti a mansioni inferiori, anche nel caso in cui il lavoratore le contesti.
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