Vittoria di un lavoratore accusato di aver diffamato la propria datrice di lavoro
Una nota azienda automobilistica italiana si è costituita parte civile nel processo penale che coinvolgeva un proprio dipendente, imputato del reato di diffamazione. Secondo la società, il video diffuso dal lavoratore avrebbe offeso la reputazione e l’onore dell’azienda e perciò ha chiesto il risarcimento dei danni nei confronti del dipendente.
La Corte di Cassazione ha definitivamente risolto la questione: con la sentenza numero 12.520 del 25 gennaio 2023 ha ritenuto infondata la richiesta di risarcimento del danno avanzata dalla società.
La motivazione? Non c’è danno perché non c’è stato alcun reato: seppur espressa con toni pungenti e aspri, la satira amplia i confini del diritto di critica oltre il tradizionale limite della continenza.
“Mi hanno diffamato” oppure “Sono stato vittima di diffamazione” sono espressioni ricorrenti, specie in un mondo come quello di oggi dove le espressioni, anche quelle più volgari, si diffondono rapidamente in un contesto iperconnesso. Ma che cosa e quando si configura il reato di diffamazione sul posto di lavoro?
Il reato è previsto dal codice penale all’articolo 595, che così recita:
“Chiunque, comunicando con più persone offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1.032 euro.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a 2.065 euro.
Se l’offesa è recata col mezzo della o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro”.
La diffamazione si distingue dall’ingiuria per il contesto in cui avviene il reato: la diffamazione richiede che il contenuto offensivo sia rivolto a più persone, mentre l’ingiuria è rivolta esclusivamente nei confronti del destinatario.
Spessa succede che al lavoratore venga contestato un messaggio diffamatorio nei confronti dell’azienda o nei confronti dei propri superiori. In molti casi il lavoratore si difende sostenendo di aver esercitato il proprio diritto di critica nei confronti delle scelte aziendali. È un diritto previsto dallo Statuto dei Lavoratori: l’articolo 21 dice che
“I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge”.
Ma il dipendente può spingersi a criticare le decisioni aziendali anche con un linguaggio offensivo e diffamatorio?
Dottrina e giurisprudenza hanno delineato questi limiti, che consentono di tracciare il perimetro tra comportamenti leciti e condotte illecite e disciplinarmente rilevanti:
Nel caso deciso dalla Corte di Cassazione, il dipendente era accusato di aver diffamato la società attraverso un video pubblicato su Youtube con uno stile satirico, ma che – secondo la società – eccedeva i limiti consentiti.
La Suprema Corte ha definitivamente assolto il lavoratore poiché, secondo i giudici, in caso di contenuto satirico i limiti al diritto di critica sono più estesi rispetto agli ordinari mezzi di comunicazione.
La Cassazione ha riconosciuto la giustificazione del diritto di critica affermando che “qualora la critica sia formulata con modalità proprie della satira, il giudice, nell’apprezzare il requisito della continenza, deve tener conto del linguaggio essenzialmente simbolico e paradossale dello scritto satirico, rispetto al quale non si può applicare il metro consueto di correttezza dell’espressione, restando, comunque, fermo il limite del rispetto dei valori fondamentali, che devono ritenersi superati quando la persona pubblica, oltre che al ludibrio della sua immagine, sia esposta al disprezzo”.
Sempre secondo la Suprema Corte, il linguaggio satirico “ evoca e chiama in causa i concetti del paradosso e del simbolismo con la conseguenza che anche il concetto di correttezza dell’espressione va interpretata e valutata nel peculiare contesto dal quale l’agente attinge le espressioni utilizzate”.
Sulla base di tali motivazioni, la Suprema Corte ha ritenuto che il fatto non costituisse reato e dunque che la società non avesse diritto ad alcun risarcimento.
I limiti della condotta satirica possono così essere delineati:
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