È possibile utilizzare un contratto nazionale differente solo se offre “tutele equivalenti”
Il decreto legislativo numero 36/2023, il cosiddetto “nuovo Codice Appalti 2023” in vigore dal 1° luglio di quest’anno, contiene importanti novità per i lavoratori occupati dall’azienda o dal soggetto affidatari dell’appalto.
La normativa è stata rielaborata per garantire maggiori tutele ai lavoratori, evitando una “gara al ribasso” riguardo il costo della manodopera e stabilendo regole valide a livello nazionale.
Tra le novità vi è l’introduzione dell’obbligo, da parte dell’ente appaltante, di indicare il contratto collettivoÈ l’accordo stipulato a livello nazionale tra i sindacati di rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro per regolare determinati aspetti dei contratti individuali di lavoro di un certo settore (es. orario di lavoro, retribuzione minima, ferie, congedi, ecc.). More che l’aggiudicatario dovrà applicare. Rimane possibile applicare un contratto diverso solo a patto che questo “garantisca ai dipendenti le stesse tutele di quello indicato dall’[appaltante]”.Analizziamo insieme tutte le novità del Codice degli appalti 2023.
Il decreto legislativo 36/2023 è il nuovo testo di riferimento per l’intero settore degli appalti pubblici e delle concessioni: in altre parole, riguarda tutti i lavori e le forniture che gli enti pubblici affidano a ditte esterne. Il campo di applicazione del nuovo codice appalti 2023 è indicato dall’articolo 14 del dgls 36/2023, e dipende dal valore delle opere o dei servizi oggetto d’appalto e dal soggetto che pubblica il bando.
Come anticipato, il codice degli appalti 2023 si concentra in particolar modo sul costo del personale e sulle tutele contrattuali da applicare ai rapporti di lavoro.
Per evitare situazioni di “dumping contrattuale” e garantire condizioni lavorative dignitose si è stabilito l’obbligo di utilizzare il contratto collettivo leader di settore. L’articolo 11 del dlgs 36/2023, nello specifico, stabilisce che “al personale impiegato nei lavori, servizi e forniture oggetto di appalti pubblici e concessioni” viene applicato il “contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro”.
Quest’obbligo rappresenta, a tutti gli effetti, una deroga al principio della libera scelta del contratto collettivo: nel nostro sistema, in effetti, il datore di lavoro è libero di scegliere (o non scegliere) il contratto collettivo che ritiene più adatto alla proprie esigenze, senza necessariamente applicare quello del settore di appartenenza. Nel caso di appalti pubblici, al contrario, è tenuto ad applicare il contratto collettivo di categoria.
Nonostante l’indicazione menzionata, è comunque possibile che all’interno della stessa categoria siano stati sottoscritti diversi contratti collettivi, considerando anche la presenza di diversi datori e sindacati nello stesso settore.
Il già citato articolo 11 affronta anche questa eventualità, imponendo l’applicazione del contratto collettivo “stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, e quello il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto o della concessione svolta dall’impresa anche in maniera prevalente”. In sostanza, il riferimento è al “contratto collettivo leader”, molto spesso sottoscritto dai sindacati confederali (CGIL, CIL, UIL).
In ogni caso, per evitare fraintendimenti, la legge prevede che “nei bandi e negli inviti le stazioni appaltanti e gli enti concedenti [indichino] il contratto collettivo applicabile al personale dipendente impiegato nell’appalto o nella concessione”.
Come detto, nel nostro sistema un’azienda ha solitamente la facoltà di applicare qualsiasi contratto collettivo. Proprio per questo motivo, anche nel nuovo codice appalti 2023 è stata prevista una clausola di “salvezza”: se un’azienda applica un contratto collettivo diverso da quello indicato nel bando, avrà il diritto di continuare a farlo a condizione che questo “garantisca ai dipendenti le stesse tutele di quello indicato dalla stazione appaltante o dall’ente”, avendo l’obbligo di dimostrare e dichiarare l’equivalenza delle tutele.
Ma cosa succede nel caso in cui l’azienda appaltatrice non paghi i lavoratori impiegati nell’appalto? In questo caso interverrà l’ente appaltante, che pagherà direttamente gli stipendi.
In tal senso, il sesto comma dell’articolo 11 prevede che “in caso di ritardo nel pagamento delle retribuzioni dovute al personale [dell’azienda], il responsabile unico del progetto invita per iscritto il soggetto inadempiente […] a provvedervi entro i successivi quindici giorni. Ove non sia stata contestata formalmente e motivatamente la fondatezza della richiesta entro il termine […], la stazione appaltante paga anche in corso d’opera direttamente ai lavoratori le retribuzioni arretrate, detraendo il relativo importo dalle somme dovute all’affidatario del contratto [oppure] dalle somme dovute al subappaltatore inadempiente nel caso in cui sia previsto il pagamento diretto”.
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