Le implicazioni della mobilità spontanea delle persone (di cui il fenomeno della c.d. Great Resignation è soltanto la punta dell’iceberg) per il modo di concepire il sistema della loro protezione nei rapporti con le imprese
di Pietro Ichino
Negli USA indicano il fenomeno col termine Great Resignation: un incremento del 35% delle dimissioni volontarie rispetto al periodo precedente la pandemia. Qui da noi, in un primo tempo molti hanno sostenuto che si trattasse di una peculiarità d’oltre-Atlantico. Poi si è dovuto constatare che no, questo fenomeno si registra anche in Europa; ma si è detto che non riguardava l’Italia. Quando i dati hanno mostrato che il fenomeno, sia pure in misura meno marcata, interessa anche il nostro Paese, cioè che anche qui è aumentata notevolmente rispetto al passato la percentuale di coloro che nell’ultimo anno si sono dimessi sul totale degli occupati, qualcuno ha sostenuto che quella variazione costituisse soltanto un’anomalia legata al congelamento del mercato del lavoro nel corso della pandemia: si sarebbe trattato soltanto di dimissioni congelate nel corso del 2020 e attuate nel 2021. Infine, dopo mesi nei quali la tendenza risultava confermata e dopo che si è vista l’inconsistenza della tesi delle “dimissioni differite dal 2020 al 2021”, siamo arrivati a constatare che l’aumento delle dimissioni c’è anche da noi, è di entità consistente soprattutto nel centro-nord, è trasversale sia rispetto ai settori produttivi, sia rispetto a mestieri e professioni. E, quel che più conta, non appare destinato a cessare.
Anche in Italia, insomma, aumenta il numero delle persone che lasciano il proprio posto di lavoro per migrare altrove. Che, cioè, sono in condizione di scegliere fra diverse opportunità occupazionali; perché ne hanno la concreta, effettiva possibilità, nonostante la qualità per lo più mediocre dei nostri servizi per il lavoro. La persona che vive del proprio lavoro non è più soltanto oggetto di scelta ma diventa un soggetto, un protagonista che in maggiore o minore misura ha la capacità di negoziare le condizioni del proprio lavoro.
Questa capacità di scelta, ovviamente, non l’hanno ancora tutti; ma i dati sulla mobilità spontanea dei lavoratori consentono di pensare che chi ne è totalmente privo faccia parte ormai di una minoranza. L’obiettivo che dobbiamo proporci è di mettere anche questi ultimi in condizione di cambiare lavoro, di scegliere; ma questi non sono più la figura dominante, perché sempre più persone sono in grado di guardarsi intorno, muoversi, negoziare le condizioni dell’ingaggio e negoziare con l’impresa che più le soddisfa.
Prendere atto di questo fenomeno implica che non guardiamo più il mercato del lavoro come un luogo dove è soltanto l’impresa a scegliere le persone: sono anche queste ultime a scegliere l’impresa. Il rovesciamento del paradigma del mercato del lavoro che proposi due anni fa nel libro L’intelligenza del lavoro. Quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore (Rizzoli, 2020) non era dunque una “provocazione”, un “paradosso”, come è stato qualificato da commentatori troppo radicalmente attaccati al modo di considerare il mercato del lavoro tipico del Novecento. Il rovesciamento del paradigma era la conseguenza ovvia dell’osservare il fenomeno – già allora ben percepibile e destinato di lì a poco a dilatarsi notevolmente – della frazione maggioritaria della forza lavoro capace di compiere una selezione tra le opportunità offerte dal tessuto produttivo e scegliere quella ritenuta migliore. Un fenomeno capace di caratterizzare il mercato del lavoro del nuovo secolo.
Il fatto che i lavoratori abbiano sempre più la possibilità di scegliere, di guardarsi intorno per trovare l’impresa che meglio può valorizzare il loro lavoro, di muoversi verso le aziende che offrono le condizioni di lavoro migliori, è importante anche nell’ottica di un incremento della produttività del lavoro, indispensabile nel nostro Paese. Non si aumenta la produttività del lavoro se non si promuove la mobilità delle persone verso l’azienda che può meglio valorizzare le persone.
Tutto questo implica anche un profondo mutamento nel modo in cui si concepisce la protezione del lavoro. Il DNA originario del nostro sistema di protezione rispecchia le caratteristiche del mercato del lavoro all’indomani della prima rivoluzione industriale, sintetizzate nel modello del monopsonio strutturale: l’impresa industriale come una cattedrale nel deserto, unica alternativa alla miseria della disoccupazione o della sottoccupazione agricola (la situazione che nel 1885 Émile Zola descrive in modo impressionante nelle prime pagine di Germinal). In quel contesto, la sola protezione possibile consisteva nell’imposizione – prima per mezzo di contratti di tariffa, poi per mezzo di leggi inderogabili – degli standard minimi di trattamento atti a erodere, se non eliminare del tutto, la rendita conseguita dall’imprenditore in conseguenza della distorsione monopsonistica del mercato. Il contratto di lavoro era davvero, come lo aveva definito Karl Marx, “la foglia di fico che nasconde la vergogna della dittatura del padrone sull’operaio”; e le norme inderogabili di legge o di contratto collettivo, ovvero la limitazione drastica dell’autonomia negoziale individuale, erano il solo strumento atto a proteggere la persona che viveva del proprio lavoro dallo strapotere dell’imprenditore. Ora, il modello cui corrisponde il mercato del lavoro attuale, almeno nell’occidente industrializzato, è lontanissimo da quello del monopsonio originario: oggi la domanda di manodopera intellettuale e manuale è espressa da una miriade di imprese; il problema principale non è costituito dalla scarsità delle alternative nel mercato dell’occupazione, ma semmai dal difetto di informazione su di esse e sui servizi di formazione necessari per potervi accedere, se non dal difetto dei servizi stessi; e anche dal difetto di mobilità (per i vincoli familiari e le difficoltà di spostamento dell’abitazione) normalmente caratteristico della situazione della persona che vive del proprio lavoro.
La scienza economica ben conosce anche questa situazione nella quale l’impossibilità di scelta tra le diverse opportunità occupazionali è causata non da un difetto di pluralità e concorrenza sul lato dell’offerta, ma da difetti di informazione e di servizi adeguati di formazione e assistenza alla mobilità: essa viene rappresentata sinteticamente con il modello del monopsonio dinamico (in contrapposizione a quello del monopsonio strutturale). E la stessa economia del lavoro avverte che, quando di questo si tratti, la soluzione non può continuare a essere perseguita col difendere le persone dal mercato, cioè col sostituire alla loro autonomia negoziale l’imposizione di modelli rigidi preconfezionati di rapporto contrattuale, secondo il paradigma dell’ordinamento protettivo originario, ma deve essere perseguita col correggere il difetto di informazione, formazione e mobilità che tipicamente impedisce alla persona di trarre profitto dalle alternative occupazionali che effettivamente le si offrirebbero. In altre parole: non col difendere la persona dal mercato, ma col rafforzarne la posizione nel mercato. Dunque col potenziare i servizi essenziali per aumentare la possibilità di scelta delle persone e soprattutto garantirla a tutti: servizi di orientamento scolastico e professionale come “primo anello della catena”, servizi moderni e non burocratici di informazione e mediazione tra domanda e offerta di lavoro, servizi di formazione mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti e capillarmente controllata nella sua efficacia, servizi di assistenza alla mobilità.
Per farci un’idea del rovesciamento del modello dell’apparato protettivo di cui stiamo parlando, come conseguenza del rovesciamento del modo stesso di considerare il mercato del lavoro, consideriamo il modo in cui è stato fin qui affrontato il problema della protezione dei cosiddetti rider, i ciclofattorini il cui lavoro si svolge per mezzo del collegamento a distanza con la piattaforma digitale che li pone direttamente in contatto con gli utenti del servizio. L’approccio tradizionale, che fin qui ha prevalso in Italia e si è tradotto nella norma protettiva varata con la legge n. 128/2019, muove dalla constatazione della condizione di debolezza contrattuale delle persone coinvolte in questa forma nuova di organizzazione del lavoro, per giungere a porvi rimedio imponendo inderogabilmente le forme di tutela proprie del vecchio modello proprio del lavoro subordinato: anche quando il rapporto abbia di per sé le caratteristiche proprie del lavoro autonomo, la prestazione di lavoro, se continuativa, deve comunque essere assoggettata a un orario predeterminato e deve essere retribuita esclusivamente in ragione della sua estensione temporale. Senonché, come dimostra l’esperienza di Just Eat (l’impresa che ha deciso di impostare il rapporto di lavoro con i propri rider secondo lo schema tradizionale del contratto di lavoro subordinato), questo assetto della disciplina protettiva può funzionare soltanto per la frazione minoritaria dei rapporti di collaborazione nei quali l’impresa è in grado di saturare lo “slot” di orario di lavoro part-time rigidamente previsto dal contratto, al costo di una limitazione della possibilità di guadagno complessiva offerta al rider, il quale perde la possibilità di svolgere tutti i servizi che si collocano al di fuori di quello “slot”. Cosicché la maggior parte dei servizi che fanno capo alla piattaforma digitale gestita da Just Eat deve essere gestita ponendo i rider direttamente al servizio dei singoli utenti (ristoranti, pizzerie, ecc.) ed esponendoli al conseguente peggioramento complessivo delle condizioni di lavoro.
Un approccio alla questione più sintonico rispetto al contesto attuale del mercato del lavoro dovrebbe invece consistere nel limitare il contenuto della norma inderogabile alla garanzia di standard minimi essenziali sul piano retributivo, assicurativo e della igiene e sicurezza del lavoro, senza però impedire che la prestazione lavorativa si svolga secondo lo schema essenzialmente proprio del platform work (quindi senza impedire che essa sia misurata e retribuita esclusivamente in ragione del risultato); e focalizzando il sostegno alla persona interessata sulla possibilità per la stessa di cambiare lavoro attrezzandosi sul piano professionale in relazione alle migliori opportunità abbondantemente offerte dal mercato. Così, per esempio, al rider che intenda cambiar mestiere dovrebbe essere offerto innanzitutto un servizio di orientamento professionale in grado di tracciarne il profilo delle aspirazioni e delle capacità; e sulla base di quanto ne emerge dovrebbero essergli indicati i percorsi di formazione necessari per accedere a qualcuna delle centinaia di migliaia di vacancies che le imprese faticano a coprire.
In altre parole, invece di proteggere i rider imponendo al platform work la camicia di Nesso del vecchio modello del rapporto di lavoro subordinato, li si può e deve proteggere soprattutto offrendo loro una opzione exit, cioè la possibilità concreta di mettere a frutto non soltanto le proprie capacità di pedalare su una bicicletta e usare uno smartphone, ma anche le altre capacità di cui per lo più essi sono dotati (i rider sono per la maggior parte giovani immigrati provenienti dalla parte intellettualmente e professionalmente più dotata della popolazione del Paese d’origine): capacità che un sistema efficace di orientamento e formazione professionale può e deve saper individuare e affinare. Perché il tessuto produttivo oggi presenta, in tutte le fasce professionali, una miriade di opportunità di lavoro che non si traducono in nuova occupazione a causa della difficoltà che le imprese incontrano per trovare le persone in possesso delle capacità richieste. E non c’è protezione migliore per chi vuole sottrarsi a un rapporto di lavoro poco gratificante che quella di aprirgli un percorso verso aziende dove le sue capacità possono essere meglio valorizzate.
Articolo in corso di pubblicazione sul numero di maggio 2022 della rivista Mondoperaio e tratto dal sito www.pietroichino.it