L’economista americano ad Agenda 2030: «il lavoro del futuro sarà agile, glocale, con aziende che collaborano tra loro anche a grande distanza»
Le rivoluzioni industriali hanno portato a un sistema di produzione che sta consumando il pianeta su cui viviamo e l’attuale sistema del lavoro ha creato un forte disequilibrio tra la parte più ricca e quella più povera del mondo. Le 8 persone più ricche del pianeta detengono un patrimonio complessivo che equivale a tutta la ricchezza accumulata da oltre metà della popolazione globale.
E, come se non bastasse, ora ci troviamo di fronte a una crisi più profonda, che va dritta al cuore del futuro e degli affari del mondo del lavoro: il cambiamento climatico, che secondo gli scienziati potrebbe portare nel giro di pochi decenni ad un evento di estinzione di massa.
Questa la sintesi della lunga premessa con cui Jeremy Rifkin, teorico economico e sociale americano, fondatore e presidente della Foundation on Economic Trends (FoET) nonché consulente per le politiche ambientali della Commissione e del Parlamento europei, ha aperto il suo intervento ad Agenda 2030, “Il Futuro al lavoro”.
L’evento, dedicato ai temi del lavoro che cambia, è promosso da WI LEGAL, uno dei più importanti studi di diritto del lavoro, e SHR Italia, società leader nell’informazione, formazione e ricerca sui temi giuridici che interessano il mondo del lavoro.
Il cambiamento climatico, secondo Rifkin, è la prima chiave per capire e delineare il futuro del lavoro. «Dobbiamo porci una domanda», dice l’economista, «come sono arrivati i grandi cambi di paradigma economico nella storia? Finora ce ne sono stati almeno sette e condividono un denominatore comune: in un determinato momento di quelle società sono emerse e confluite tre tecnologie, per creare un’infrastruttura che ha radicalmente cambiato il modo di comunicare, creare energia e muovere la nostra sfera sociale, economica e governativa».
«Due brevi esempi: nel 19esimo secolo gli inglesi avviarono una rivoluzione delle comunicazioni con la stampa a vapore. Poi, con il telegrafo, arrivò la comunicazione istantanea. Queste due rivoluzioni delle comunicazioni confluirono in un nuovo regime energetico: si passò dal legname al carbone. Poi misero motore a vapore alimentato dal carbone e lo misero su rotaie, creando la ferrovia.
La seconda rivoluzione industriale iniziò negli Stati Uniti e segnò il passaggio all’occupazione di massa. Ha creato forza lavoro in tutti i continenti e import export in tutto il mondo. Ha raggiunto il picco nel 2008. Quel mese il costo del petrolio grezzo schizzò a 147 dollari a barile, facendo esplodere l’inflazione. È quello che è successo anche con la guerra Russo-Ucraina».
«La buona notizia» continua Rifkin, «è che questa sarà probabilmente l’ultima guerra dei combustibili fossili. Perché ci sta portando verso la terza rivoluzione industriale, che sta emergendo con una nuova infrastruttura di comunicazione, energia e mobilità.
La rivoluzione della comunicazione si chiama internet: abbiamo 4,5 milioni di persone connesse in tutto il mondo, e tengono nel palmo della loro mano uno smartphone con più potenza di calcolo di quella che è servita per portare l’uomo sulla Luna. Questa rivoluzione ha permesso alle persone di comunicare le une con le altre a un costo fisso molto basso. E sta coinvolgendo una seconda rivoluzione basata sull’energia solare.
Milioni di persone, presto miliardi produrranno energia eolica e solare nei luoghi dove vivono, lavorano e nelle comunità di cui fanno parte. Il sole splende ovunque, il vento soffia in ogni parte del mondo. Ma è intermittente, e questo significa che quando c’è il sole in una parte del mondo dobbiamo raccogliere l’energia solare ed eolica che c’è lì e spostarla attraverso i continenti, sotto gli oceani, e condividerla. Questo si sta già verificando.
Andiamo verso un’internet dell’elettricità sempre più digitalizzato. Queste due reti stanno convergendo in una terza: l’internet della mobilità e della logistica digitalizzata. Basata su trasporti elettrici e su celle a combustibile a idrogeno alimentate da energia solare ed eolica generata dall’internet dell’elettricità.
«Queste tre internet creano una nuova infrastruttura e ci portano dalla globalizzazione dell’economia alla glocalizzazione. Perché ora, grazie alle tre internet, chiunque può mettere in piedi una piccola azienda super tecnologica e creare una piattaforma fluida con altre piccole o medie imprese.
E iniziare così a condividere opportunità commerciali gli uni con gli altri, bypassando le multinazionali che controllavano quasi tutto nel 20esimo secolo».
«Il lato negativo» prosegue l’economista «è che dobbiamo preoccuparci del darknet. Come possiamo impedire che i governi lo usino per interferire negli affari degli altri governi? Come ci possiamo difendere dalle minacce del terrorismo informatico? E come possiamo garantire che le imprese internet non rubino i nostri dati trasformandoci in lavoratori non retribuiti?
C’è un lato oscuro della faccenda e dobbiamo gestirlo. Ma supponiamo di poterlo fare. Mettiamo che siate un’azienda locale italiana, una cooperativa, e che collaboriate con una grande multinazionale. Molte di queste grandi aziende non svaniranno, ma stringeranno alleanze con piccole e medie imprese in una piattaforma glocalizzata, piuttosto che nei vecchi mercati.
Perciò se siete una piccola, media o grande azienda italiana potete andare sulla nascente piattaforma IoT per farvi un’idea abbastanza chiara dei big data che attraversano il sistema. Poi potete sfruttare quei big dataÈ una enorme raccolta di dati che supera i limiti dei database tradizionali. Per essere analizzata necessita di tecnologie e metodi analitici specifici, in modo da estrarre valori e conoscenze, che, ad esempio, in un contesto aziendale possono essere d’aiuto nel prendere le decisioni migliori. More con sistemi di analisi e algoritmi. E sfruttare quei dati per incrementare la vostra efficienza in modo graduale, per ridurre i vostri costi fissi e marginali, in tutta la catena del valore.
Allo stesso modo si possono usare per ridurre l’impatto ambientale. Di conseguenza potrete percepire un ritorno sugli investimenti senza rimanere intrappolati in una struttura più grande e globalizzata».
«Ora» dice ancora l’economista «vorrei parlare del mondo del lavoro. Si parla sempre di efficienza, che è stata un valore fondamentale della prima e della seconda rivoluzione industriale, ma non lo sarà della terza.
L’efficienza è il modo in cui ognuno di noi nelle nostre aziende e nella società può estrapolare sempre più dalla natura, per modificarla, farla propria, consumarla nel più breve tempo possibile. Utilizzando questo valore temporale abbiamo consumato la terra. E adesso stiamo iniziando a ripensare il sistema, com’è successo all’inizio dell’epidemia da Covid-19, quando ci siamo accorti che non c’erano abbastanza ventilatori o mascherine, nemmeno la carta igienica.
Ci siamo accorti che siamo diventati iperefficienti riducendo la ridondanza. Ci siamo accorti di non avere scorte in emergenza.
La natura non funziona in termini di efficienza, ma di adattabilità. In natura non esiste un processo di produzione snello, con una sola coltura, un solo albero, un solo animale. Perché se si fermasse qualcosa andrebbe in crisi tutto il sistema. Quello che stiamo iniziando a capire anche nella comunità imprenditoriale è proprio questo: ci serve un altro valore temporale e cioè l’adattabilità.
L’infrastruttura della terza rivoluzione industriale è agile, glocal, con persone che collaborano da ogni parte del mondo, ci porta dalla produttività alla rigenerazione. Stiamo passando dalla crescita alla prosperità, dai mercati alle reti, da venditori e acquirenti a fornitori e utilizzatori, dall’esternalizzazione alla circolarità, dal PIL agli indicatori della qualità di vita. Stiamo passando dalla geopolitica alla cooperazione nella biosfera. Sono tutti cambiamenti importanti che ci conducono verso una nuova era».
L’era del progresso è finita e l’era della Resilienza ci impone di occuparci dei nostri ecosistemi. Il cambiamento deve toccare anche il mondo dell’istruzione, le università devono preparare i lavoratori ad andare oltre il loro compito specifico.
Non vogliamo più solo ingegneri, contabili o sociologi. Dobbiamo pensare in modo sistematico, non più a blocchi. Dobbiamo rompere le barriere accademiche e preparare una forza lavoro che capisca come adattarsi alla complessa relazione negli ecosistemi.
I lavoratori sono il più grande capitale del pianeta. La cosa interessante è che il maggior flusso del capitale moderno sono i fondi pensionistici. Dipendenti pubblici e privati, parte dei risparmi in tutto il mondo viene investita per conto loro. Abbiamo un enorme potenziale per la forza lavoro nel 21esimo secolo.
Per prima cosa dovremo costruire nuove infrastrutture resilienti, case, uffici, aziende. Secondo, dovremo spostarci verso nuove città, perché alcuni dei luoghi dove viviamo non sono più vivibili. Questo richiede nuovi approcci del settore per diventare più agili, riuscire a creare delle imprese ed essere in grado di smantellarle rapidamente. E rapidamente ricostruirle».
Leggi anche: