La settimana lavorativa si ferma a 32 ore anziché 40, con uguale stipendio e obiettivi ricalibrati. L’esperimento è partito nel 2019 e a tre anni di distanza il CEO di Carter & Benson, William Griffini, si considera pienamente soddisfatto dei risultati. Ma chiarisce anche che la produzione migliora, non aumenta.
«Smettiamo di parlare di aumento della produzione» precisa Griffini «tutti continuano a chiedermi di questo aspetto e molti giornali insistono a scrivere che lavorando meno e meglio si produce di più. Sfatiamo un mito: è impossibile che le persone producano di più lavorando 8 ore in meno.
E non è nemmeno il giusto metro per misurare l’iniziativa, che è di welfare. Ovviamente la produttività un po’ è scesa, ma per me lasciare ai lavoratori la più ampia libertà possibile è una questione di rispetto. I risultati si vedono sul benessere delle persone, sull’ingaggio e, sul lungo periodo, in termini di reputation e di employer branding.
E posso assicurare che nel nostro caso non sono mancati. In termini di attrattività abbiamo un ritorno enorme».
Quanto al calo di produzione, per Griffini va preso in considerazione al momento di attivare il progetto, perché è inevitabile. Ma si può compensare. «Dato per fisiologico che se le persone lavorano circa un 20% di ore in meno anche la produzione scende» spiega «possiamo recuperare circa un 10% di produzione con la tecnologia e un altro 10% con le nuove assunzioni. E così raggiungiamo due goal incredibili: da un lato investiamo sull’innovazione tecnologica, dall’altro sull’occupazione».
Una gestione delle risorse così libera richiede naturalmente molta fiducia da parte del datore di lavoro e molta responsabilità da parte del lavoratore. «E qui non sono mai mancate» assicura Griffini «siamo un gruppo di persone che lavorano in armonia e amicizia. Io che sono il Ceo lavoro nell’open space con tutti gli altri.
Parto dal presupposto che siamo prima di tutto persone e, in quanto tali, nessuno di noi ha più o meno valore di altri. Dal punto di vista professionale ci differenziano le competenze e le responsabilità».
Per Griffini, il modello di Carter&Benson è replicabile in qualunque società. «L’organizzazione» spiega «è applicabilissima, ogni economia ha almeno delle aree dove si possa replicare il nostro modello: la questione è solo volerlo.
E volerlo con la consapevolezza che questa scelta comporta dei costi: in libero arbitrio, si decide di rinunciare a una parte di utile in favore di un bene più grande, che è non solo il benessere del dipendente ma un anche un modello produttivo più equo.
Sappiamo che la società del futuro dovrà evolvere in questo senso: verso ritmi di lavoro più umani, ma anche verso una produzione diversa, che non punti solo alla quantità ma anche alla qualità, intesa anche come qualità di lavoro e di impatto sociale».
Va detto anche che il percorso intrapreso da Carter&Benson è stato lungo e molto graduale: la società nasce nel 2003 e già nel 2006 inizia a sperimentare lo smart workingÈ una nuova modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, introdotta dalla l. 81/2017 e caratterizzata dall’assenza di precisi vincoli di orario e di luogo di lavoro per il dipendente. More, passando in breve tempo al full smart working grazie a un corposo investimento tecnologico.
Anche il timbro sul cartellino è stato abolito molti anni fa e la settimana breve è stato il naturale punto d’arrivo, che ha trovato i lavoratori molto preparati ad affrontare quest’ultimo passo. Un’innovazione su cui, assicura a più riprese Griffini, non tornerebbe mai più indietro.